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"il tutto si crea e il tutto si trasmuta….la trasformazione è solo un'eccezione"

Ogni atomo ponderabile è differenziato da un fluido tenue, che riempie tutto lo spazio meramente con un moto rotatorio , proprio come fa un vortice di acqua in un lago calmo. Una volta che questo fluido – ovvero l’etere – viene messo in movimento, esso diventa grossolana materia. Non appena il suo movimento viene arrestato la sostanza primaria ritorna al suo stato normale...

Nikola Tesla


venerdì 23 febbraio 2018

Noi utiliziamo la chimiurgia per fabbricare i nostri detergenti bio !

Cosè la Chimiurgia?

Chemiurgia (Chemurgy in inglese, dal greco chemeia «chimica» ed ergon «lavoro») è un termine nato in America negli anni trenta per definire quella branca dell'industria e della chimica applicata che si occupa della preparazione dei prodotti industriali esclusivamente da materie prime agricole e naturali, facendo uso solamente di risorse rinnovabili e senza recare danno all'ambiente.
La parola fu coniata dal chimico William J. Hale, che nel 1934 pubblicò il libro The Farm Chemurgic, per indicare «l'ottenimento di sostanze chimiche industriali dai prodotti agricoli».


Negli anni trenta, di fronte all'avanzare della rivoluzione industriale, il movimento della Chemiurgia si proponeva di trasformare ed integrare la produzione agricola con quella industriale, invece di abbandonare l'agricoltura a se stessa indirizzando tutti gli investimenti sull'industria. La chemiurgia puntava dunque ad usare prodotti vegetali, in particolare la canapa, pianta coltivata e diffusissima in America fino al suo proibizionismo, che era in grado di fornire all'industria grandissima parte delle materie prime di cui necessitava e che oggi si ricavano in gran parte dalla lavorazione del petrolio.




« Perché consumare foreste che hanno impiegato secoli per crescere e miniere che hanno avuto bisogno di intere ere geologiche per stabilirsi, se possiamo ottenere l'equivalente delle foreste e dei prodotti minerari dall'annuale crescita dei campi di canapa? »


Restava però ancora un pesante handicap per rendere la produzione di cannabis davvero competitiva. Il lavoro di separazione della fibra infatti andava fatto a mano, e questo rallentava notevolmente i tempi e i costi di produzione. L'invenzione di una nuova macchina, il "decorticatore", sembrò poter togliere questa barriera alla produzione industriale della cannabis, e delle altre fibre tessili ricavate dal fusto delle piante, prospettandone un successo pressoché illimitato. La rivista Popular Mechanics pubblicò in quei mesi un articolo intitolato "La nuova coltivazione da un miliardo di dollari", nel quale si prospettava uno strepitoso rilancio a livello mondiale delle piantagioni di cannabis.[4]
Tuttavia queste premesse non poterono essere confermate, a causa delle leggi di proibizione che già nel 1937 vennero applicate alla coltivazione e al commercio della cannabis.
Alcuni ritengono che la proclamazione di queste leggi di proibizione nei confronti della cannabis negli Stati Uniti sarebbe stata legata alla concorrenza tra la nascente industria petrolchimica dei prodotti DuPont e la possibilità di usare l'olio di questa pianta per produrre fibre plastiche e come combustibile, ed altresì alla concorrenza della nascente industria della carta ricavata dal legno degli alberi, sminuzzato e sbiancato con sostanze chimiche, con la eventuale produzione industriale di carta di canapa.[5] Inoltre, il magnate del giornalismo William Randolph Hearst, uno dei più importanti sostenitori del proibizionismo della cannabis proprio con i suoi quotidiani, aveva acquistato milioni di ettari di foresta da legname, che intendeva utilizzare per produrre carta appunto per i suoi giornali, sempre più popolari.[6]
I principi della chemiurgia sono tornati alla ribalta negli ultimi anni, trattati con approcci diversi e soprattutto identificati con nuovi nomi, come nel caso della chimica verde.





MATERIE PRIME DI ORIGINE AGRICOLA COME FONTE DI APPROVVIGIONAMENTO PER L'INDUSTRIA

Ottilia De Marco
Professore emerito, Università di Bari



La biomassa vegetale ha fornito da sempre materie prime all'industria alimentare, tessile, navale, edilizia, cartaria, dell'arredamento ecc.

Con l'avvento dell'industria petrolchimica e l'affermazione sul mercato di altri materiali, alcune di tali industrie hanno tratto da altre fonti le loro materie prime, lasciando l'industria alimentare come sbocco prevalente della produzione vegetale. Il settore agricolo, d'altra parte, ha fatto troppo poco per incentivare e sviluppare l'uso dei suoi prodotti e sottoprodotti come materie prime industriali, pertanto si è avuta una stasi negli studi e nelle ricerche su queste sostanze.

Così, mentre le conoscenze nel campo petrolchimico e dei nuovi materiali si sono ampliate e approfondite, quelle riguardanti i prodotti vegetali sono ancora molto lacunose. Eppure le ricerche su questi argomenti oltre ad essere stimolanti per il fascino che sempre esercita la possibilità di scoprire i meccanismi di formazione dei prodotti della natura e le leggi che li governano, suscitano interesse sia per l'enorme disponibilità di tali materiali, sia per le applicazioni pratiche che da una loro profonda conoscenza possono derivare.

Ogni anno, col processo fotosintetico, vengono fissati sulle terre emerse circa 100 miliardi di tonnellate di carbonio, per circa due terzi sotto forma di materiali lignocellulosici e per circa un terzo sotto forma di amido, zuccheri e altre sostanze.

Nel passato, in un periodo di crisi, ci fu, negli Stati Uniti, un breve, ma intenso interesse per la trasformazione dei prodotti naturali in prodotti industriali. Agli inizi degli anni venti, infatti, William J. Hale, un chimico della Dow Chemical Co., lanciò un vasto movimento sociale, denominato Farm Chemurgic Movement, che aveva come obiettivo l'utilizzazione, nell'industria chimica, di materie prime derivanti dall'agricoltura.

Il termine chemurgia fu coniato dallo stesso Hale, dal greco chemeia (chimica) ed ergon (lavoro), per indicare l'ottenimento di sostanze chimiche industriali dai prodotti agricoli.

Il movimento attrasse l'attenzione e l'interesse di molti uomini importanti, a livello politico come Henry Wallace (ministro dell'agricoltura nella prima amministrazione Roosevelt, 1933), a livello industriale come Henry Ford e, a livello intellettuale come George Washington Carver (1865-1943), che si impegnarono a fondo in questa operazione. Molte idee nuove furono realizzate e molti studi furono condotti, nei settori più vari.

Negli anni trenta del Novecento, presso il Dipartimento dell'agricoltura degli Stati Uniti, furono istituiti quattro laboratori "chemurgici" regionali che divennero i maggiori centri di ricerca e di applicazione dei prodotti e sottoprodotti agricoli, soprattutto di quelli più ampiamente disponibili o dei quali si registravano regolarmente o stagionalmente delle eccedenze.

Henry Ford, oltre a finanziare i primi Convegni del National Farm Chemurgic Council, istituì a Dearbon, vicino a Detroit, un centro di ricerca sui prodotti agricoli, chiamato Edison Institute of Technology: uno dei primi e più importanti programmi di studio fu quello riguardante la soia .

Fra le realizzazioni della chemurgia va ricordata la produzione del furfurolo dalla pula di avena nello stabilimento di Omaha (Nebraska) della Quaker Oats; quando lo stabilimento fu chiuso, in seguito alla crisi del 1932, la riapertura fu determinata proprio dalla domanda di furfurolo e non da quella di farina di avena.

Altro esempio di applicazione industriale, dovuta alle ricerche effettuate in campo chemurgico, fu quello dell'uso del legno del pino meridionale per l'ottenimento di alfa cellulosa, sulla base degli studi condotti da Charles H. Herty. L'impiego di questa pianta portò alla nascita e allo sviluppo, nella parte meridionale degli Stati Uniti, dell'industria della cellulosa e della carta che precedentemente era accentrata nel nord e nord est del paese, alimentata con piante a crescita più lenta.

Questo fervore di idee e di iniziative fu interrotto dallo scoppio della Il guerra mondiale. In seguito, l'ampia disponibilità di petrolio a prezzo molto basso fece apparire economicamente poco conveniente l'utilizzazione di prodotti agricoli per l'ottenimento di sostanze chimiche industriali. Negli anni settanta del Novecento la crisi dell'energia e delle risorse e il degrado ambientale sembrarono riportare l'interesse verso la ricerca di nuove materie prime meno costose, più disponibili e suscettibili di trasformazione in merci meno inquinanti. Si cominciò a guardare con una certa attenzione alle fonti naturali, rinnovabili, alla cosiddetta biomassa. Da allora, però, pochi settori, come ad esempio quello della produzione dell'alcol per fermentazione e della sua utilizzazione come carburante, sono stati oggetto di studio e di sperimentazione industriale.

Il lavoro che resta da fare è perciò ancora molto e l'impegno di ricerca, che dovrebbe essere interdisciplinare, potrebbe portare a risultati di enorme interesse in vasti settori economici. Si indicano qui di seguito alcune linee di ricerca rivolte all'approfondimento delle conoscenze di base dei materiali vegetali, in vista di una loro migliore utilizzazione industriale.

Amido

L'amido è uno dei più abbondanti materiali vegetali: per fotosintesi se ne producono circa 50 miliardi di tonnellate l'anno, ma la produzione di amido industriale, nel mondo, si aggira, soltanto, intorno ai 20 milioni di tonnellate l'anno. È ricavato per il 75% dal mais e per il resto da grano, riso, patate, tapioca ecc.

A seconda della specie o della famiglia da cui proviene, esso presenta caratteristiche diverse tanto che si deve parlare dell'esistenza di "amidi" (al plurale), piuttosto che di amido. Una rassegna delle caratteristiche degli amidi presenti nei vari vegetali, con particolare attenzione alle piante che sono state finora poco utilizzate come fonti industriali di amido, potrebbe rappresentare un interessante argomento di ricerca. Sulla base dei risultati si potrebbe giungere ad una vera classificazione degli amidi e ad una eventuale loro più specifica utilizzazione.

Un secondo argomento di ricerca potrebbe essere lo studio dei complessi molecolari amido-lipidi e amido-proteine, presenti nelle diverse piante. La conoscenza della natura di questi complessi potrebbe fornire forse anche la spiegazione di certi fenomeni, come ad esempio, il rinvenimento del pane raffermo o il diverso comportamento alla macinazione del grano, del granoturco e del riso.

Sarebbe inoltre interessante approfondire la conoscenza del rapporto amilosio/amilopectina, i due costituenti dell'amido, il cui contenuto di solito è del 15-30% per l'amilosio e del 70-85% per l'amilopectina, ma che può variare nelle diverse piante con conseguente modificazione delle caratteristiche dell'amido.

Derivati importanti dell'amido sono, come è noto, le destrine e le ciclodestrine che, a secondo della loro provenienza o del loro processo di preparazione, manifestano proprietà particolari che le rendono adatte a varie applicazioni (come adesivi, emulsionanti, leganti, assorbenti ecc.) in settori merceologici diversi (alimentare, tessile, cartario, metallurgico ecc.).
Una ricerca approfondita sulla struttura di queste sostanze, di cui si sa ancora molto poco, potrebbe fornire suggerimenti per un impiego più vasto.

Zuccheri

Fra gli zuccheri, sostanze ampiamente diffuse in natura, il più commercialmente usato, come è noto, è il saccarosio che viene estratto principalmente dalla canna e dalla barbabietola e il cui impiego prevalente è quello alimentare.

Il valore potenziale del saccarosio come materia prima per l'industria chimica è stato spesso oggetto di ricerca, ma le applicazioni pratiche sono ancora molto limitate. La sua struttura chimica di alcol poliidrato favorisce reazioni selettive a seconda del gruppo idrossilico, primario o secondario, e a seconda della posizione di questo nella molecola. Generalmente i gruppi idrossilici primari sono i più reattivi. La differente reattività dipende anche da altri fattori come il tipo di solvente che si usa, il tipo di reazione, la temperatura ecc.

Tutto questo consente molteplici sostituzioni e una potenzialità di derivati quasi infinita. Del saccarosio sono noti alcuni esteri, eteri, acetali e uretani anche se le conoscenze di tali derivati sono ancora scarse. I gruppi idrossilici primari possono essere ossidati ad aldeidi o ad acidi carbossilici e i gruppi idrossilici secondari a chetoni. I gruppi idrossilici possono essere sostituiti anche da idrogeno, da alogeni, da tiocianati, da tioacetati o da altri gruppi monovalenti.

Nonostante queste ampie possibilità di produzione, i derivati del saccarosio che hanno finora avuto un sia pur limitato interesse, anche dal punto di vista commerciale, sono stati gli esteri che hanno trovato utilizzazione come sostanze tensioattive ed emulsionanti nell'industria dei detergenti, dei cosmetici e in quella alimentare.

Anche derivati di altri zuccheri come il sorbitolo e il lattitolo (alcoli ottenuti per idrogenazione catalitica, rispettivamente, del glucosio e del lattosio), esterificati con acidi grassi, hanno mostrato buone proprietà detergenti disperdenti e umettanti.

Il campo di indagine nel settore degli zuccheri è ancora molto vasto e può riservare interessanti successi. Non sono stati qui presi in considerazione, ad esempio, tutti i processi basati sulla fermentazione la cui tecnologia, per certi prodotti, è già nota perché ampiamente usata prima dell'avvento della petrolchimica, ma che andrebbe, tuttavia, approfondita e sviluppata.

Grassi

Un'altra possibile fonte di materie prime per l'industria chimica sono i grassi. Essi sono già usati nell'industria dei saponi e dei cosmetici e trovano buona applicazione nell'industria dei detergenti, per la produzione di acidi grassi, "alcoli detergenti", metilesteri e loro derivati, sostanze intermedie per l'ottenimento di tensioattivi.

La potenzialità d'uso dei grassi è però molto grande. Già nel periodo chemurgico e durante la Il guerra mondiale sono stati impiegati per la produzione di idrocarburi e di oli combustibili.
I grassi, come del resto quasi tutte le sostanze naturali, si differenziano a seconda della loro provenienza ed esplicano particolati proprietà. Così l'olio di lino presenta proprietà siccative, quello di ricino proprietà lubrificanti per i motori. La presenza in quantità elevata di acido erucico nell'olio di crambe lo rende adatto a fornire un lubrificante specifico per i convertitori ad ossigeno, usati per la trasformazione della ghisa in acciaio. L'olio di jojoba, per la sua composizione di estere di un acido grasso con un alcol grasso, è risultato un valido sostituto dell'olio di capodolio, tradizionalmente usato come lubrificante e ormai molto raro sul mercato.

Indagare sulle caratteristiche dei grassi, presenti nei semi o nei frutti delle piante più comuni, ma soprattutto di quelle meno diffuse o di recente coltivazione, può essere un altro importante impegno scientifico per i ricercatori.

Proteine

Le proteine, molecole complesse fondamentali alla vita, costituiscono una buona parte del contenuto cellulare delle piante e degli animali.
Molte delle tecnologie tradizionali dipendono dalle proprietà delle proteine. La bontà del pane è legata alla presenza, nelle farine, del glutine che serve a formare un reticolo elastico che trattiene l'umidità e il gas e rende il pane soffice e fragrante. Anche i sapori e gli odori dei cibi dipendono, spesso, dal comportamento delle proteine durante la cottura.
La struttura delle proteine è molto complessa; molti studi sono stati condotti e i risultati più importanti si sono avuti a partire dagli anni '40, ma soprattutto dopo la seconda guerra mondiale. Tuttavia, le combinazioni con le quali i 20 aminoacidi, presenti nelle proteine, possono legarsi fra loro sono COSI numerose e tali da rendere ogni molecola proteica unica; varrebbe la pena, perciò, di approfondirne la conoscenza.
Nel periodo chemurgico la parte solubile in alcol del glutine di mais, la zeina, trovò applicazione industriale per la produzione di vernici e di fibre tessili. Altri tentativi, in seguito, per l'ottenimento di fibre tessili, sono stati fatti con le proteine della soia e delle arachidi. Il prodotto è risultato poco soddisfacente e la tecnologia è stata utilizzata poi per l'ottenimento di carne di soia.
Recenti ricerche suggeriscono l'impiego di proteine per la preparazione di sostanze tensioattive e di materie plastiche.

Lignocellulosa

Il materiale lignocellulosico è uno dei derivati della biomassa impiegato quasi esclusivamente nell'industria, soprattutto nell'industria delle costruzioni e dell'arredamento e in quella della cellulosa e carta.
Questo materiale, tratto per la maggior parte da alberi di alto fusto, può essere ottenuto anche da residui di altre piante minori che spesso vengono trascurati. È un materiale complesso in cui sono presenti oltre a cellulosa, lignina, emicellulosa, altre sostanze come acidi grassi, resinici, tannini, gomme ecc.
Nell'industria della carta, durante la preparazione delle paste al solfito e al solfato, si ha come sottoprodotto il lignosulfonato, una miscela di lignina sulfonata, di zuccheri, di acidi degli zuccheri, di resine e di sostanze chimiche inorganiche.
Il lignosulfonato è un'importante materia prima usata per la produzione di vanillina ed è suscettibile di altri impieghi in vari settori industriali: come tensioattivo nell'industria dei detergenti, come legante per pellets, come additivo nei cementi ecc.
Durante la lavorazione della pasta al solfito e al solfato, quando si usa legno di pino; dalla soluzione che si ottiene dopo la cottura del legno, il cosiddetto liscivio nero, si può ricavare anche il tallolio, costituito per il 48% da acidi grassi e per il 42% da acidi resinici che possono essere separati per distillazione e destinati a vari usi. Sempre nella preparazione delle paste da carta, durante la cottura del legno si ha la formazione di acido acetico e alcol metilico che spesso vengono scaricati con gli effluenti liquidi, creando problemi ambientai i che potrebbero essere evitati recuperando questi prodotti.
La carbonizzazione del legno porta sempre, infatti, alla liberazione di questi due componenti insieme a catrame e ad altre sostanze, tutte utilizzabili industrialmente.
Per idrogenazione o idrolisi della lignina si può ottenere una frazione di sostanze aromatiche e fenoli. Per idrolisi acida del legno si ha fra l'altro, una soluzione di pentosi, esosi, acido formico, acido acetico ecc. I pentosi possono essere convertiti in furfurolo.
Va inoltre ricordato l'ampio campo di utilizzazione della cellulosa da cui si ottengono numerosi derivati, come gli acetati, gli xantati, la carbossimetilcellulosa ecc..
Il materiale lignocellulosico, per la varietà e la ricchezza dei suoi componenti è una risorsa naturale che offre enormi prospettive. Adeguatamente impiegato può fornire la maggior parte delle merci oggi ottenute dal petrolio.
Anche da una cosi rapida rassegna, si può vedere come le materie prime di origine agricola possono rappresentare per l'industria una fonte di approvvigionamento costante, rinnovabile, poco costosa, non esposta a grossi giochi di mercato.
Perché l'industria possa utilizzare al meglio queste risorse che, se anche rinnovabili, non devono essere sprecate, ha bisogno di conoscere profondamente la loro composizione, la loro struttura e la loro disponibilità, la loro potenzialità di impiego.

È necessario che i laboratori delle università, degli enti pubblici, delle industrie sviluppino programmi di ricerca sui prodotti e sottoprodotti agricoli. L'agricoltura, da parte sua deve incentivare l'uso dei suoi prodotti, con colture adeguate, scegliendo per l'utilizzazione industriale piante adatte allo scopo, con caratteristiche particolari, creando ibridi ecc.
Hale nel 1946 concludeva cosi un suo articolo intitolato: The Farm Chemurgic Movement. "Il Farm Chemurgic Movement si pone come obiettivo quello di avere una agricoltura fiorente alla pari e in concorrenza con una industria altrettanto fiorente, entrambe condotte su basi scientifiche e in grado di fornire occupazione a tutti i cittadini".
È ancora oggi un obiettivo da perseguire.

domenica 11 febbraio 2018

L’aria di casa è inquinata, ripulirla riduce anche lo stress



A Shanghai si vive immersi nella nebbia, ma non per normali fenomeni atmosferici: l’aria è irrespirabile e i livelli di guardia per lo smog sono sforati quasi regolarmente. Pensando a questo potremmo credere che i risultati ottenuti da Haidong Kan, docente di Scienze ambientali alla Fudan University di Shanghai, non ci riguardino granché: su Circulation l’esperto ha spiegato come cambiano (in peggio) innumerevoli parametri metabolici a seguito dell’esposizione dei suoi concittadini all’inquinamento fuori e dentro le abitazioni, dimostrando che i filtri antiparticolato possono ridurre le alterazioni e forse proteggere un poco dai danni da smog. Kan ammette che la situazione di Shanghai è disperata (c’è chi parla di “airpocalypse” per questa e altre città cinesi, alle prese con una qualità dell’aria più che pessima) e che i dati raccolti su un gruppo di studenti volontari potrebbero non essere uguali altrove, ma l’accuratezza dei test su sangue e urine dei partecipanti impone una riflessione. Si tratta infatti del primo studio in cui si è andati a verificare gli effetti dello smog utilizzando la metabolomica, facendo cioè complessi esami sui livelli di infiammazione e stress ossidativo ma soprattutto su decine di sostanze coinvolte nel metabolismo, dal glucosio agli aminoacidi, dai grassi agli ormoni. Una mole enorme di dati, che sono stati correlati al grado di inquinamento a cui era stato esposto ciascuno e che dimostrano chiaramente come al crescere dello smog aumentino per esempio i livelli di ormoni dello stress e infiammazione, ma anche l’insulino-resistenza e la pressione arteriosa; ben 97 metaboliti si alterano e tutte le vie metaboliche di zuccheri, grassi e proteine subiscono contraccolpi. Un disastro che può essere almeno parzialmente arginato migliorando l’aria indoor, cioè quella dentro casa (o ufficio).


Il 90% del tempo lo trascorriamo in casa
Considerando che passiamo al chiuso il 90 per cento del nostro tempo, non c’è di che stare allegri; e se è vero che il problema è gravissimo nei Paesi in via di sviluppo, dove l’inquinamento indoor è fra le prime cause di morte, di sicuro non si può ignorare che respirare aria cattiva in casa aumenta il rischio di malattie cardiovascolari, tumori, malattie respiratorie. Il primo passo per “ripulire” l’aria domestica? Fare attenzione a tutto quel che brucia, come spiega Mannucci: «Caminetti, stufe a legna o a pellet, fornelli a gas se non c’è una buona aerazione, barbecue: tutti producono sostanze volatili dannose e andrebbero usati con parsimonia, arieggiando bene le stanze dopo e tenendo aperte le finestre mentre si cucina. Anche gli incensi da bruciare non sono una buona abitudine; da evitare il fumo di sigaretta, che inquina l’aria anche se si fuma in terrazza perché le particelle si attaccano ai vestiti e vengono trasportate dentro». 


Prodotti per la pulizia
Cautela anche con i prodotti per la pulizia: deodoranti e detergenti contengono composti organici volatili cancerogeni (come la formaldeide rilasciata pure da mobili di truciolato o con finiture di scarsa qualità). «Il pulito non ha odore, i profumi sono “pericolosi”—. Per le pulizie bastano acqua e EcoNano Green semmai acido citrico e percarbonato. Non esistono test per dosare i composti organici volatili in casa, ma cambiando le abitudini possiamo migliorare tanto la qualità dell’aria indoor: contro lo smog esterno tanti si rassegnano a non poter fare niente, ma per ridurre l’inquinamento domestico le armi ci sono eccome». Una, semplicissima, è aprire le finestre. Anche se abitiamo in una strada trafficata: «Basta farlo al mattino presto o alla sera, quando ci sono meno auto in giro, per cambiare e migliorare l’aria interna — dice l’esperto —. Anche molte piante da appartamento possono aiutare, assorbendo le particelle di smog: il verde “tampona” l’inquinamento all’esterno e dentro casa, con effetti evidenti sul benessere. Infine, meglio aumentare il ricambio d’aria evitando gli infissi sigillanti: gli ambienti troppo “impermeabili” sono favorevoli dal punto di vista energetico ma l’aria viziata può danneggiare chi vi abita fino alla comparsa della sindrome da edificio malato. Bisogna trovare compromessi adeguati, per esempio puntando di più sulle finestre a vasistas che consentono di cambiare aria senza influire troppo sulla temperatura interna».


Prodotti per la verniciatura dei muri
Cautela anche con i prodotti per la verniciatura: vernici tradizionali deodoranti e detergenti contengono composti organici volatili cancerogeni (come la formaldeide rilasciata pure da mobili di truciolato o con finiture di scarsa qualità). Meglio scegliere vernici in classe A+ che ti garantiscono sulla bassissima tossicità.
Da alcuni anni trovate in commercio EcoThermo Paint Air che è in grado di decontaminare l'aria con la tecnologia della Ionizzazione passiva, ovvero ottenuta con cristalli di Tormalina inseriti nella vernice. Oltre alle caratteristiche termiche che aiutano ad equalizzare i ponti termici ed evitare la formazione di muffe dovute a presenza di umidità in corrispondenza proprio dei ponti termici.


lunedì 29 gennaio 2018

Acqua Attiva ! Stop al Calcare !



Secondo una definizione ricorrente, gli ultrasuoni rappresentano vibrazioni sonore di frequenza più elevata rispetto al limite di circa 20 kHz comunemente indicato per definire la soglia di udibilità umana.
Una loro classificazione sommaria li suddivide in tre categorie fondamentali: le basse frequenze nelle quali si tocca il massimo di circa 200 kHz e le medie frequenze dove il massimo raggiunge i 2 MHz mentre, con valori superiori a questo limite, subentrano le alte frequenze che hanno significato pratico fino a valori massimi intorno a 10 MHz.
Un campo ultrasonoro che agisca all’interno di un corpo in qualsiasi stato di aggregazione esso si trovi, genera in quest’ultimo effetti fisici rilevanti in grado di variare lo status del corpo medesimo. Senza volerci addentrare in considerazioni che esulano da quanto viene trattato in questa sede, ci
si limita a ricordare che, in un corpo allo stato liquido, si manifesta, per effetto dell’attivazione dovuta alle vibrazioni ultrasonore, il fenomeno della cavitazione.

Esso ha origine da una brusca rottura della coesione molecolare dovuta alla consistente e rapida diminuzione di pressione legata a questo tipo di vibrazioni. La conseguenza immediata è la formazione di minuscole bollicine riempite dai gas disciolti nel liquido o dal vapore prodotto dal
ridimensionarsi della coesione molecolare.
Nell’acqua attivata, l’azione delle vibrazioni ultrasonore attacca gli aggregati molecolari
che caratterizzano il suo stato liquido, aggregati altrimenti resi
particolarmente consistenti dal legame ad idrogeno che si instaura – tra i dipoli ossigeno-idrogeni
generati dalla forte elettronegatività dell’ossigeno rispetto all’altro elemento – per effetto dell’azione
elettrostatica esercitata dai poli negativi (atomi di ossigeno) dei singoli dipoli molecolari sui poli
positivi (formati dai due atomi di idrogeno) adiacenti 
Questo tipo di aggregazione comporta, per l’acqua non attivata, conseguenze tra loro in aperto
contrasto. Se nell’acqua non fosse presente il
legame ad idrogeno, la piccolezza e lo scarso peso della molecola (18 g/mole) la condannerebbero
ad essere, alle nostre condizioni di temperatura e pressione, quanto meno un vapore se non addirittura
un gas (l’etilene, con peso 28 g/mole, a T e P ambiente è un gas).
Il medesimo legame ad idrogenoal contrario, aggregando le molecole di acqua, ne garantisce,alle nostre condizioni ambientali, la permanenza nello stato liquido con tutti i benefici effetti che ciò
comporta. Però, nello stesso tempo, lo stato di cose or ora descritto ridimensiona notevolmente, al di
la delle apparenze, la capacità bagnante dell’acqua e ne aumenta considerevolmente sia la viscosità
sia la tensione superficiale: tutti fattori che ostacolano il buon utilizzo del preziosissimo liquido.
Il primo dei tre effetti negativi citati fa sentire la sua presenza soprattutto in agricoltura dove è in
condizione di ridimensionare sia l’azione dell’acqua adsorbita nei vegetali sia la sua capacità solvente
nei confronti dei sali presenti nel terreno.
Il secondo effetto è causa di costi energetici decisamente maggiorati nel momento in cui si vuol
procedere al moto di una massa d’acqua in una conduttura. Il tutto è dovuto alla consistente difficoltà
di scivolamento che presentano tra loro le singole particelle di acqua interferendo l’una con l’altra.
Il valore della viscosità dell’acqua infatti è piuttosto elevato risultando pari a circa 1 poise (poise
≡ g/(cm x sec)) per cui il moto di questo liquido in una tubazione è condizionato
dall’azione rallentante delle forzeviscose opposte alle forze inerziali.
Questa situazione comporta un consistente aggravio energetico, con i relativi costi, dovuto alla
necessità di sopperire alle perdite di carico durante il flusso del liquido nella tubazione.
Il terzo ed ultimo tra gli effetti citati è causa di un eccessivo consumo di tensioattivi e saponi nei lavaggi sia domestici sia, soprattutto, industriali. Per interpretare questo stato di fatto basta far mente
locale ad una lavanderia di discrete dimensioni che utilizza e scarica, quotidianamente, una massa di circa 200 m3 d’acqua di lavaggio. Si pensi al vantaggio che avrebbe un’aziendadi questo tipo se fosse in condizioni di rivedere, anche se parzialmente, il quantitativo di tensioattivi da usare nella fase operativa iniziale con i risparmi sulle spese gestionali che ne conseguirebbero anche tenendo conto del minor impegno economico che si avrebbe nella fase finale quando si deve procedere, secondo norma, a trattare i liquami destinati ad essere scaricati in un qualsiasi ricettore.
Abbiamo appena citato alcuni effetti negativi che condizionano il comportamento dell’acqua nella pratica quotidiana dopo averne individuata la causa nell’aggregazione delle sue molecole in consistenti gruppi coesi dalla forza elettrostatica conseguente al legame ad idrogeno  a l’argomento è stato introdotto osservando che le vibrazioni ultrasonore hanno la proprietà di scindere gli aggregati di molecole d’acqua – così come possono depolimerizzare i grandi aggregati molecolari degli alti polimeri – favorendone così sia l’effetto bagnante sia l’effetto solvente. Con la frammentazione degli aggregati molecolari citati, effetti analoghi si possono anche riscontrare nella riduzione della viscosità dell’acqua come conseguenza di un migliore scivolamento interparticellare dovuto alle più contenute dimension.


GLI ULTRASUONI E L’ACQUA
Cavitazione, ossidazione e riscaldamento conseguenti alle vibrazioni ultrasonore sono causa di distruzione della carica batterica in un’acqua degli aggregati medesimi. Per la stessa ragione si possono ipotizzare benefici dalla riduzione della tensione superficiale dell’acqua a causa del minor uso di tensioattivi e saponi nei lavaggi domestici ed
industriali. Gli ultrasuoni agiscono anche nel campo chimico e batteriologico intervenendo nella catalisi di reazioni chimiche e nell’abbattimento della carica batterica presente in un liquame. Cavitazione, ossidazione e riscaldamento conseguenti alle vibrazioni ultrasonore sono causa didistruzione della carica batterica in un’acqua. Il fenomeno della cavitazione prodotto da ultrasuoni sufficientemente intensi, genera cavità da cui si origina l’implosione delle stesse, costituendo un inusuale substrato per le reazioni chimiche e biologiche. Nello specifico, l’efficacia antibatterica, riconducibile alla cavitazione ultrasonora, si esplica attraverso la rottura della membrana delle cellule batteriche. L’effetto immediato, riscontrabile e misurabile, consiste in una drastica decontaminazione batterica dell’acqua. Inoltre le oscillazioni meccaniche ad alta frequenza degli ultrasuoni determinano la cristallizzazione del calcare (carbonato di calcio) sottoforma di aragonite anziché di calcite, quest’ultima a maggiore stabilità termodinamica. Ciò interrompe da un lato il fenomeno dell’incrostazione, dall’altro, per effetto meccanico di sfregamento dell’acqua, si produce un assottigliamento della parte incrostata per asportazione delle particelle di calcare. In aggiunta a ciò ed a causa degli sbalzi termici sempre presenti, le incrostazioni preesistenti tendono naturalmente a fessurarsi: in condizioni normali tali fessurazioni sono riparate dall’ulteriore deposito di altro calcare in forma di calcite. Tale azione è però incompatibile da parte della forma cristallina dell’aragonite che anzi promuove la fessurazione e/o sgretolamento dell’incrostazione con conseguente evacuazione della medesima come cristalli in sospensione nel flusso liquido. Inoltre da osservazioni macroscopiche condotte portando ad ebollizione acqua potabile attivata, il fenomeno della precipitazione del carbonato di calcio privilegia la formazione di una moltitudine di germi cristallini finissimi che rimangono in sospensione nella corrente fluida: l’enorme superficie complessiva di questi germi fa si che ogni ulteriore quota di carbonato di calcio che precipita, si depositi per accrescere questi piuttosto che sulle superfici
del recipiente. Gli ultrasuoni possono essere generati tramite vari dispositivi dei quali i più significativi sono quelli elettromagnetici, a magnetostrizione e, soprattutto, i piezoelettrici. Il T-Sonik OM è uno strumento particolarmente significativo per originalità tecnica e per semplicità di realizzazione e d’uso. In realtà il T-Sonik OM, pur producendo ultrasuoni, non è stato concepito a questo scopo: esso trova il suo campo d’applicazione specifico nel settore del trattamento delle acque
industriali, agricole e domestiche per attivarle secondo i concetti già espressi nella prima parte di questo contributo. In sostanza la produzione di ultrasuoni non rappresenta il fine ma unicamente il mezzo per attivare l’acqua aumentandone la bagnabilità e diminuendone la viscosità e la tensione superficiale rendendola così più adatta ai vari usi cui è destinata. Inoltre, come si è già sottolineato, l’azione degli ultrasuoni ha effetti sterilizzanti oltre a favorire la cristallizzazione del CaCO3 precipitandolo sotto forma di aragonite, non incrostante, invece della deleteria calcite fortemente
incrostante. Il T-Sonik OM  che da ora in poi sarà chiamato più semplicemente armonizzatore,
è stato realizzato in acciaio inox, ha forma tubolare, ed è stato immesso sul mercato in una
serie di diametri standard così da renderne normale l’inserimento in qualsiasi circuito idraulico dotato
di tubazioni dai diametri parimenti standard. In qualsiasi impianto idraulico, domestico o industriale,
questo strumento viene sistemato in modo preferenziale subito a valle del contatore preceduto solo da un filtro defangatore.

martedì 23 gennaio 2018

perchè NO agli Enzimi

Nei prodotti per bucato e per lavastoviglie sono generalmente presenti gli enzimi.
Si tratta di sostanze di origine naturale molto biodegradabili, che contribuiscono all’efficacia del detersivo mediante azioni specifiche su vari tipi di sporco: la proteasi è efficace per la rimozione dello sporco proteico (come tracce di uova, sangue, etc.), l’amilasi per le incrostazioni amidacee (da pasta, mais, etc.), la lipasi per il grasso, la mannanasi per certi addensanti usati nell’industria alimentare (contenuti nei gelati, in alcuni prodotti dolciari). Esiste anche la cellulasi, enzima in grado di ripristinare il cotone sfibrato, che tende a fare pelucchi. Dal punto di vista ecologico non vi sono controindicazioni al loro utilizzo.

È dal punto di vista della tossicità che, invece, si possono evidenziare alcune criticità.
Perchè, quando presenti, gli enzimi vanno riportati in etichetta? Perché sono allergizzanti, ossia la loro capacità di dare reazioni allergiche nella popolazione è stata giudicata elevata.
In più, secondo il nostro parere la subtilisina (la proteasi utilizzata in detergenza, di fatto l’enzima più utile fra i vari considerati) presenta molte affinità con la papaina, una proteasi presente in alimenti ma utilizzata in molti prodotti per uso topico (medicamenti per ferite e dermatiti).
L’FDA (Food & Drug Administration, l’ente statunitense per la sicurezza degli alimenti e dei farmaci) ha rilevato problemi di reazioni allergiche anche gravi legate all’uso di tali prodotti, proibendone il commercio; in più sono stati acquisiti numerosi dati di tossicità per il ciclo riproduttivo e teratogenicità (tossicità per il feto) a carico della papaina. La subtilisina, sotto certi aspetti simile alla papaina, nonostante l’amplissima diffusione è stata pochissimo investigata.
Il Principio di Precauzione ci dovrebbe spingere a evitarne l’utilizzo e l’esposizione.

giovedì 14 settembre 2017

Nella società ipercomplessa, la strategia è saltare le separazioni

Non possiamo più accontentarci di formare tecnici: abbiamo un disperato bisogno di figure con una preparazione ampia e articolata, che riescano a coniugare la formazione scientifica e quella umanistica. Sapendo mantenere la prospettiva sui sistemi e sull’insieme. Piero Dominici spiega come - ma soprattutto perché - ripensare dei nostri sistemi formativi per gestire le sfide della complessità

Ci sono intellettuali che hanno la capacità di sintetizzare le loro riflessioni in definizioni icastiche. Piero Dominici è uno di quelli. È docente universitario e formatore professionista, insegna Comunicazione pubblica e Attività di Intelligence e interesse nazionale presso l’Università degli studi di Perugia, è Visiting Professor presso l’Universidad Complutense di Madrid e ha un blog su Nòva de Il Sole 24 Ore, dal titolo “Fuori dal Prisma”. Il professore nel numero del magazine di giugno si è confrontato con noi sui temi del lavoro e del mismatch, della preparazione dei giovani, di come scuola e università debbano cambiare non tanto per stare al passo di ciò che il mercato del lavoro chiede ma per stare al passo di una realtà nuova, segnata dall'ipercomplessità.
Una manciata di sue frasi sono già spunto per tanti pensieri: «Dobbiamo insegnare a vedere, osservare e interpretare gli "oggetti" come "sistemi" e non viceversa i sistemi come oggetti» oppure dobbiamo «ricomporre la frattura tra l'umano e il tecnologico». O ancora: «Tutti oggi parlano di competenze e di “saper fare”, ma il “saper fare” senza il “sapere” ci porta a “fare le cose” come sono sempre state fatte, perché farle in quel modo ha funzionato e continua a rassicurarci di fronte all’imprevedibilità ed all’indeterminatezza del reale». Ma anche «nella società ipercomplessa non sono più sufficienti il "sapere" o il "saper fare": dobbiamo "sapere", dobbiamo "saper fare", ma dobbiamo anche "saper comunicare il sapere" e "saper comunicare il saper fare"». Il futuro, per il professore, «è di chi riuscirà a ricomporre la frattura tra l'umano e il tecnologico, di chi riuscirà a ridefinire e ripensare la relazione complessa tra naturale e artificiale; di chi saprà coniugare (non separare) conoscenze e competenze; di chi saprà coniugare, di più, fondere le due culture (umanistica e scientifica) sia a livello di educazione e formazione, che di definizione di profili e competenze professionali». E la sola citazione che si concede, in questa lunga intervista, è preziosa: «Max Weber diceva che il mercato, se lasciato alla sua autonormatività, conosce soltanto una dignità della cose e non una dignità della Persona. Questa è la sfida ulteriore. Ecco perché è necessario e urgente mettere mano all’educazione e alla formazione».
Il succo potrebbe anche essere qui, ma fermarsi qui sarebbe davvero un peccato. Perché per capire come devono cambiare istruzione e formazione per rispondere alle sfide di una società ipercomplessa bisogna partire dall’inizio, dal comprendere perché devono cambiare.

Professore, cominciamo dall’inizio: gli esperti dicono che siamo in un’epoca nuova, che non si è mai vista nella storia. Non si tratta solo di cambiamenti rapidi, ma del fatto ad esempio che siamo per la prima volta in un’epoca sviluppo esponenziale, non più lineare. Per questo ci dicono che per governare i processi di questa epoca nuova serve un cambio di paradigma. Ma che cos’è esattamente la novità della nostra epoca? Che cos’è l’ipercomplessità?
Possiamo partire dal presupposto che la complessità è una caratteristica strutturale/connaturata ai gruppi umani, alle relazioni, al sistema sociale, persino al mondo biologico e degli oggetti, pur se con alcune differenze. Per ciò che riguarda il mondo degli oggetti, potremmo parlare di sistemi complicati più che complessi, dal momento che siamo in grado di scomporne e analizzarne le parti per comprenderne il comportamento e il funzionamento. Si tratta di fenomeni e processi sostanzialmente lineari e, in qualche modo, prevedibili e replicabili. La complessità che riguarda, in modo particolare, la società, le organizzazioni e i gruppi umani (con qualche sfumatura, anche i sistemi biologici) è una complessità del tutto particolare, perché non riconducibile né interpretabile sulla base di modelli lineari (causa-effetto, stimolo-risposta). Si tratta, pertanto, di una complessità imprevedibile - la questione della prevedibilità, non soltanto dei comportamenti umani, sociali, culturali è cruciale e strategica (i modelli culturali servono anche a questo) – e non replicabile (la replicabilità, come noto, è requisito importante per la scienza e per poter anche soltanto parlare di “scientificità”) di cui dobbiamo osservare e comprendere soprattutto i molteplici livelli di connessione tra i processi e tra le parti/gli oggetti stessi e, per farlo, abbiamo bisogno di una visione sistemica dei processi, dei fenomeni e delle dinamiche: visione sistemica che comporta un modo completamente differente di osservare gli “oggetti”. Non solo osservare l’insieme e il tutto, consapevoli, in ogni caso, che il tutto non è mai la somma e/o la totalità delle parti.
Ma c’è un ulteriore elemento di complessità: il fatto cioè che siamo di fronte a sistemi complessi adattivi, capaci di modificarsi per soddisfare nuove condizioni e/o requisiti. Sono sistemi le cui parti costituenti non sono “inanimate”, passive, neutrali, reagenti soltanto a certi stimoli in maniera prevedibile; sono individui, entità, relazioni che costantemente contribuiscono a cambiare e a co-creare le condizioni dell’interazione, dell’ambiente di riferimento, dell’ecosistema di cui fanno parte. Se osserviamo una organizzazione sociale, ma anche semplicemente un insieme o un gruppo di persone, non solo la totalità delle persone non costituisce il tutto, non solo non potrò capire le dinamiche di quel gruppo isolando le persone o circoscrivendo il campo di osservazione; ma dovrò prendere atto che quelle stesse persone/individui/entità costantemente contribuiscono a modificare - o a co-creare, co-costruire – l’ambiente sociale in cui sono immerse. E la mia stessa presenza, la mia stessa osservazione modifica le condizioni e i livelli di interazione, scambio, condivisione. Se voglio davvero osservarne e comprenderne le relazioni e le dinamiche in continua evoluzione, devo osservare l’insieme, la globalità, le connessioni, le relazioni sistemiche. Necessario - oltre alla visione sistemica, cui si è accennato - un approccio interdisciplinare e multidisciplinare. Perché sono gli “oggetti”, le variabili, le tipologie di connessioni a richiederlo!
Nell’attuale fase di mutamento globale, il passaggio dalla complessità alla ipercomplessità è determinato da due “variabili” complesse: la prima, è l’innovazione tecnologica, in particolare la cosiddetta rivoluzione digitale che, a differenza di altre fasi di rivoluzione industriale, introduce una “nuova velocità”; la seconda riguarda il ruolo sempre più strategico che ha la comunicazione.
Il passaggio dalla semplicità alla complessità e dalla complessità alla ipercomplessità può essere spiegato in termini di variabili coinvolte, di concause e di parametri che noi possiamo utilizzare, dobbiamo considerare per osservare la realtà. Quindi, distinguiamo il “semplice” dal “complesso” proprio sulla base di variabili, concause e parametri coinvolti, per numerosità e qualità. Aggiungo che, nell’attuale fase di mutamento globale, il passaggio dalla complessità alla ipercomplessità è determinato, in particolare, da due “variabili” complesse: la prima, è l’innovazione tecnologica, in particolare la cosiddetta rivoluzione digitale che, a differenza di altre fasi di rivoluzione industriale, introduce una “nuova velocità” nei processi sociali, economici, culturali, che caratterizzano l’attuale mutamento; una “nuova velocità” che produce nuove criticità e problemi di controllo, come peraltro tutte le fasi di accelerazione; la seconda riguarda il ruolo sempre più strategico che ha la comunicazione, non soltanto con riferimento all’educazione ed al processo di socializzazione, ma anche nei processi di rappresentazione e percezione. Qui però serve una premessa: cosa intendiamo per comunicazione?
Che cosa è "comunicazione"?
L’ho definita, nel lontano 1996, come “processo sociale di condivisione della conoscenza”, là dove conoscenza è uguale a potere. La conoscenza è un processo sociale in cui ci sono persone in carne ed ossa con i loro profili psicologici, le conoscenze e le competenze, i loro modelli culturali; persone/attori sociali che partecipano a una dinamica estremamente complessa, una dinamica che non è assolutamente scontato vada a buon fine e porti alla condivisione di dati, informazioni, conoscenze. Non è scontato perché tante sono le variabili in gioco e le relazioni sono sistemiche. Dico sempre: comunicazione è complessità.
Sul tema fondamentale della comunicazione si continua a fare confusione: tra la comunicazione e i mezzi di comunicazione, tra la comunicazione e l’informazione, tra la comunicazione e la connessione, tra la comunicazione e il marketing. Confusione che si manifesta chiaramente anche nelle culture e nelle strategie di numerose organizzazioni complesse, sia pubbliche che private. Si tratta di una mancanza di chiarezza, che si traduce in scelte e strategie sbagliate, come, talvolta, mi confermano anche molti manager che incontro da formatore. A livello di discorso pubblico, poi, c’è molta retorica sui “grandi comunicatori”; l’impressione è che, nella maggior parte dei casi, i grandi comunicatori siano quelli che riescono a convincere, persuadere, perfino manipolare i destinatari dei loro messaggi, atteggiamenti, comportamenti. C’è una visione della comunicazione molto schiacciata sull’efficacia, il convincere, addirittura il cambiare l’altro, attraverso tecniche e strumenti sempre più sofisticati… Spesso – lo dico con rammarico e assumendomene la responsabilità - ho la netta impressione che stiamo preparando i futuri comunicatori ad essere soprattutto dei “tecnici della comunicazione” e/o – con tutto il rispetto per la figura del “venditore”- degli ottimi venditori, anche di idee e valori…
Fatta questa premessa, perché la comunicazione oggi è così determinante?
Oltre alla sua centralità strategica all’interno dei processi educativi e formativi, nel nuovo ecosistema globale interconnesso e iperconnesso, la comunicazione o, per meglio dire, i nuovi flussi comunicativi e la “natura” dei nuovi ecosistemi comunicativi - insieme alla configurazione delle architetture dell’informazione e dei dati - costringe le comunità degli scienziati e degli studiosi, oltre che gli “esperti”, gli stessi intellettuali, ad uscire dalle loro vecchie “torri d’avorio” e a rivedere i linguaggi e le loro strategie comunicative, ripensando le priorità e anche certe urgenze… di spiegare, divulgare, perfino includere. L’interazione con la sfera pubblica è questione di vitale importanza, per troppo tempo trascurata e/o lasciata all’improvvisazione, con tutte le ricadute del caso: si tratta di uno dei “territori” complessi dove si manifesta chiaramente il nostro preoccupante ritardo in termini di “cultura della comunicazione e della condivisione” (concetti spesso usati come slogan).
La “natura” dei nuovi ecosistemi comunicativi costringe le comunità degli scienziati e degli studiosi, oltre che gli “esperti”, gli stessi intellettuali, ad uscire dalle loro vecchie “torri d’avorio” e a rivedere i linguaggi e le loro strategie comunicative. Allora il tema della comunicazione diventa strategico, anche, e soprattutto, a livello dei processi di rappresentazione e percezione sociale delle dinamiche intorno a noi, proprio perché la maggior parte delle esperienze che noi abbiamo, non sono esperienze dirette.
Le scoperte scientifiche e le innovazioni tecnologiche, con tutte le relative implicazioni da tempo ormai non sono più argomento e dominio esclusivo degli esperti; tali questioni, proprio per le implicazioni e l’impatto che hanno sulle vite di tutti noi, non possono più essere di loro dominio esclusivo (rischi e opportunità) e, di fatto, non vengono neanche più discusse solo dagli esperti, dai tecnologi, dagli scienziati… E allora accade che il tema della comunicazione diventi ancor più strategico: comunicazione della scienza, dell’innovazione tecnologica, comunicazione (e gestione) del rischio, dell’emergenza, della sicurezza… anche, e soprattutto, a livello dei processi di rappresentazione e percezione sociale delle dinamiche intorno a noi, proprio perché la maggior parte delle esperienze che noi abbiamo, non sono esperienze dirette.
Su questo punto, ci sarebbero da dire molte cose riguardo informazione e disinformazione, fakenews (come vengono chiamate oggi) e post-verità varie. Mi limito, in questo caso, ad evidenziare, con una certa preoccupazione, come, almeno per ora, abbiamo deciso di affidare la soluzione (?) di tutti i nostri problemi - non soltanto in materia di sicurezza e protezione - alla tecnologia ed ai dispositivi tecnologici prodotti, delegando loro anche ogni responsabilità. E, quel che è più grave, sottovalutando ancora una volta che la differenza e il valore aggiunto, nei meccanismi e nei processi sociali e organizzativi, vanno ricercati sempre nel “fattore umano” e nella qualità dello spazio relazionale e comunicativo. Nervi scoperti e autentici paradossi dell’attuale innovazione complessa e iper-accelerata. Le rappresentazioni, a cominciare da quelle mediatiche, hanno da sempre uno straordinario potere ed un ruolo decisivo nelle scelte che fanno le Persone, i cittadini, gli elettori, i consumatori. Ecco quindi i due fattori che definiscono questo passaggio a una società dell’ipercomplessità: l’innovazione tecnologica (la “nuova velocità” del digitale) e la comunicazione.
Noi non possiamo che registrare la complessità e la rapidità del mutamento in atto. Questa osservazione della realtà che cosa mette in evidenza? A mio avviso, prima di tutto, la sostanziale inadeguatezza della Scuola e dell’Università. E dove si annida questa inadeguatezza? Le sembrerà una risposta lontana dalla sua domanda, ma non lo è, anzi questo è il nervo scoperto: l’inadeguatezza si annida nelle logiche e nelle culture organizzative delle nostre scuole e università, che sono siao progettate e strutturate sulle “false dicotomie”
Se questo è il contesto, quali nuove competenze servono per abitarlo? Dobbiamo aggiungere competenze nuove? O come alcuni osservatori dicono, è necessario un cambio di paradigma? O più concretamente, il problema fra mondo dell’istruzione e mondo del lavoro è che i lavori cambiano rapidamente o che non sappiamo immaginare che lavori ci saranno fra cinque anni? Perché se il problema è il mismatch tutto sommato basta cambiare la velocità con cui scuola, formazione e università si adattano alla richiesta del mercato. Ma forse il problema è che non abbiamo idea della direzione a cui puntare per il cambiamento…
In una battuta, la seconda che ha detto. Noi non possiamo che osservare, registrare la complessità e la rapidità del mutamento in atto. Questa osservazione della realtà che cosa mette in evidenza? A mio avviso, prima di tutto, la sostanziale inadeguatezza della Scuola e dell’Università di fronte ad un cambio di paradigma, di paradigmi, che è sotto gli occhi di tutti. E dove si annida questa inadeguatezza? Le sembrerà una risposta lontana dalla sua domanda, ma non lo è, anzi questo è il nervo scoperto: l’inadeguatezza si annida nelle logiche e nelle culture organizzative delle nostre scuole e università. Oltre alle questioni riguardanti la governance di queste istituzioni fondamentali, non possiamo che rilevare come Scuola e Università siano progettate e strutturate su quelle che, anni fa, ho definito “false dicotomie”: natura vs cultura, l’idea che servano solo la pratica e la ricerca e la teoria non serva a nulla, mentre teoria e pratica si alimentano vicendevolmente, anzi non esiste nemmeno un’osservazione scientifica che non abbia dietro un modello teorico.
Allo stesso modo, non si può basare tutto sull’idea – diffusissima anche nel mondo della formazione - che contino solo le competenze. Tutti oggi parlano di competenze e di “saper fare”, ma il “saper fare” senza il “sapere” ci porta a “fare le cose” come sono sempre state fatte, perché farle in quel modo ha funzionato e continua a rassicurarci di fronte all’imprevedibilità ed all’indeterminatezza del reale. Le altre false dicotomie sono quelle che contrappongono specializzazione dei saperi alla complessità. Si dice che in tutti i campi, scientifici e non, andremo verso la specializzazione dei saperi, è fisiologico. Il problema è che questi saperi non li abbiamo fatti comunicare tra loro, altro che interdisciplinarità e multidisciplinarità. Invece la realtà - sulla cui base dovremmo anche cercare di definire i nuovi profili professionali - è complessa e non può essere spiegata da saperi che sono esclusivamente tecnici o esclusivamente umanistici. In passato, ho parlato, in tal senso, dell’urgenza di “ricomporre la frattura tra l’umano e il tecnologico”. Quindi, un’altra falsa dicotomia è quella che contrappone specializzazione a interdisciplinarità, che è un’altra delle sfide fondamentali per la società interconnessa/iperconnessa, ma soprattutto per un futuro che, allo stato attuale delle cose, non siamo neanche in grado di immaginare.
Non si può basare tutto sull’idea, diffusissima anche nel mondo della formazione, che contino solo le competenze. Tutti parlano di competenze e di “saper fare”, ma il “saper fare” senza il “sapere” ci porta a “fare le cose” come sono sempre state fatte, perché farle in quel modo ha funzionato. Le altre false dicotomie sono quelle che contrappongono specializzazione dei saperi alla complessità. Si dice che in tutti i campi andremo verso la specializzazione dei saperi: il problema è che questi saperi non li abbiamo fatti comunicare tra loro, altro che interdisciplinarità e multidisciplinarità.
Noi oggi non possiamo più accontentarci soltanto di educare e formare tecnici, tecnologi e, per i momenti di crisi/transizione, umanisti: abbiamo un disperato bisogno di figure con una preparazione ampia e articolata, che riescano a coniugare le conoscenze e le competenze, la formazione scientifica e quella umanistica. Sapendo mantenere lo sguardo e la prospettiva sui sistemi, sull’insieme, sul globale, sul complesso che, come già detto, non corrisponde alla somma delle parti. Si può fare, ma si tratta di obiettivi di “lungo periodo” e i cosiddetti “decisori” sono, da sempre, poco interessati al lungo periodo.
Noi stiamo attraversando questa fase molto delicata in cui, pur comprendendone le logiche, l’esigenza di ripensare la formazione e l’educazione esclusivamente sulla base di dove sta andando il mercato lavoro e delle esigenze delle imprese – in ogni caso, le considero logiche di breve periodo - proprio per la velocità e l’imprevedibilità del mutamento in atto, rischia di rivelarsi assolutamente controproducente e sbagliata: assistiamo infatti ad una sempre più rapida obsolescenza delle conoscenze e delle competenze necessarie per lavorare. Numerosi sono i rapporti e le ricerche che ci dicono che non siamo in grado nemmeno di immaginare i profili futuri, richiamando l’urgenza di ripensare profondamente le nostre scuole, università, percorsi didattico-formativi.
A livello di università, queste false dicotomie vanno contrastate anche per quanto riguarda la ricerca scientifica: nel discorso pubblico, tutti parlano di interdisciplinarità, multidisciplinarità, trans-disciplinarità…ma le garantisco che l’interdisciplinarietà è assolutamente scoraggiata nell’università italiana. Le faccio un esempio: se pubblico un articolo scientifico su una rivista ad alto impact factor che però non appartiene ai miei settori disciplinari, magari con un collega di ingegneria, se la rivista scientifica è appunto di ingegneria, per il collega ai fini della carriera accademica quell’articolo varrà moltissimo, per me non varrà assolutamente nulla, al di là della soddisfazione personale. Chi insegna e fa ricerca all’università sperimenta quotidianamente la ben nota “reclusione dei saperi” e la gabbia, anche metodologica, costruita attraverso anche una certa visione dei settori disciplinari. Di fatto, questi sono vasi non comunicanti e - mi ripeto - i saperi sono stati reclusi dentro discipline sempre più chiuse, che fra loro non comunicano. Saperi autoreferenziali, non permeabili al cambiamento ed alla ipercomplessità. Mi soffermo spesso su questo aspetto così decisivo, perché veramente è il nervo scoperto che, ostacola non soltanto a livello culturale, il formarsi di una cultura dell’innovazione e di un pensiero realmente innovativo.
Pur comprendendone le logiche, l’esigenza di ripensare la formazione e l’educazione esclusivamente sulla base di dove sta andando il mercato lavoro e delle esigenze delle imprese, proprio per la velocità e l’imprevedibilità del mutamento in atto, rischia di rivelarsi controproducente e sbagliata: assistiamo infatti ad una sempre più rapida obsolescenza delle conoscenze e delle competenze necessarie per lavorare.
Qual è il rischio che noi corriamo se non ci decidiamo a ripensare i percorsi?
Di continuare a trovarci, fra vent’anni, ancora in una condizione di ritardo culturale, per cui continueremo a dire che l’innovazione tecnologica e digitale vanno a una velocità e la cultura non riesce a stargli dietro. Mentre quello di cui siamo poco consapevoli è che tecniche e tecnologie non sono esterne alla cultura, ma sono dentro i sistemi culturali, sono prodotti dei sistemi culturali: quello che noi dobbiamo ripensare, anche in termini di “sistema di pensiero”, è come educare e come abitare questi nuovi ambienti/ecosistemi tecnologici e comunicativi, educando e formando ad un’interazione differente anche con il mondo degli oggetti e delle cose. Nella società della conoscenza, che si baserà sempre più su professioni ad elevato contenuto conoscitivo, non è più sufficiente il sapere e il sapere fare, ma oggi noi dobbiamo sapere e saper fare, ma anche sapere comunicare il sapere e sapere comunicare il saper fare. Non si tratta di giochi di parole. Sono le traiettorie, indefinite e discontinue, del nostro futuro. Così come le dicotomie sono non soltanto false, ma falsano completamente la realtà, il nostro modo di osservarla, i nostri tentativi di comprenderla. È questo l’elemento centrale. Servono “teste ben fatte”, come diceva Montaigne, con una formazione differente e un pensiero multidimensionale, perché solo queste teste ben fatte saranno in grado di sfruttare i venti del cambiamento, e non soltanto contenerli e/o subirli.
Noi invece con questa assenza di politiche di istruzione, formazione e orientamento, ci stiamo auto-condannando a gestire i processi solo su logiche di breve periodo, quelle dell’emergenza e della risposta immediata. Noi dobbiamo invece ragionare sul lungo periodo, non orientare le politiche dell’educazione a un mercato del lavoro che è in costante evoluzione, per cui - uso un termine forte - è quasi inutile cercare di costruire dei profili che ne incontrino, fino in fondo, le esigenze. A ciò si aggiunga , un altro degli elementi di maggiore criticità per l’alta formazione, per l’Università: stiamo strutturando la ricerca sull’idea fuorviante che la conoscenza debba essere, comunque e sempre, utile.
Nella società della conoscenza, che si baserà sempre più su professioni ad elevato contenuto conoscitivo, non è più sufficiente il sapere e il sapere fare, ma oggi noi dobbiamo sapere e saper fare, ma anche sapere comunicare il sapere e sapere comunicare il saper fare. Servono “teste ben fatte”, come diceva Montaigne, con una formazione differente e un pensiero multidimensionale, perché solo queste teste ben fatte saranno in grado di sfruttare i venti del cambiamento, e non soltanto contenerli e/o subirli.
Cosa significa allora concretamente, in positivo, ripensare le strutture organizzative della formazione?
Saltare le separazioni. Ripensare lo spazio relazionale e comunicativo dentro le scuole. C’è un ritardo culturale sull’innovazione tecnologica, che per ora è opportunità per pochi, è per ristrette élite: il digitale non garantisce cittadinanza e inclusione per tutti, anzi senza mettere mano a educazione e istruzione, è destinato a render ancora più profonde certe asimmetrie e disuguaglianze. Questa società è sempre più “asimmetrica”, sempre più segnata da profonde disuguaglianze e asimmetrie: oltre a quelle tradizionali, ci sono le asimmetrie nuove, che marcano ancora di più le distanze sociali. La scuola e l’università non svolgono più, da tempo, la loro funzione di ascensori sociali e di agenti di un possibile riscatto sociale. Il discorso riguarda il lungo periodo e le politiche di lungo periodo e, in questa prospettiva, ad esempio dobbiamo ricordare che l’Italia non ha vere politiche di orientamento. L’orientamento oggi è relegato a pratiche di marketing: nei periodi degli esami di maturità, gli atenei vanno nelle scuole con le loro brochure e il materiale pubblicitario, sperando di convincere i giovani, e le loro famiglie, a operare una scelta di per sé fondamentale, una scelta che andrebbe spiegata e accompagnata nel tempo: ma quello non è orientamento, è marketing. L’orientamento è, anche e soprattutto, andare, incontrarsi, dialogare, fin dai primi anni, nelle Scuole per parlare di temi importanti (dalle cellule al Dna, dagli atomi alle molecole, dalle migrazioni alla varietà delle culture, dalla cittadinanza ai diritti, dalla scienza all’arte, dai nuovi linguaggi alla comunicazione, dalla globalizzazione alla sostenibilità, al valore della responsabilità etc.), sapendoli raccontare e spiegare, stimolando i ragazzi sulle questioni. Questo sul lungo periodo.
Ci sarebbe da fare un lungo discorso sull’urgenza di ripensare e rilanciare gli istituti tecnico-professionali, non vedendoli semplicemente come il “luogo” ove accogliere gli studenti meno dotati e/o meno “portati per lo studio”. Dovremmo ripartire dall'educare e dal formare le persone prima, e i cittadini poi, a vedere, osservare e interpretare gli "oggetti" come "sistemi" e non viceversa i sistemi come oggetti. Le società ipercomplesse saranno sempre più anche società interculturali, segnate da conflitti che noi dobbiamo provare a mediare: qui torna, ancora una volta, il ruolo strategico della comunicazione così come l’abbiamo intesa.
È evidente che anche con il breve periodo si debbano fare i conti. E ci sarebbe da fare un lungo discorso sull’urgenza di ripensare e rilanciare gli istituti tecnico-professionali, non vedendoli semplicemente come il “luogo” ove accogliere gli studenti meno dotati e/o meno “portati per lo studio” e la ricerca. Torno a dire: il futuro sarà di chi riuscirà a ridefinire e ripensare la relazione complessa tra naturale e artificiale; di chi saprà coniugare conoscenze e competenze; di chi saprà fondere le due culture (umanistica e scientifica) sia a livello di educazione e formazione, che di definizione di profili e competenze professionali. Per questo noi dovremmo ripartire dall'educare e dal formare le persone, prima, e i cittadini, poi, a vedere, osservare e interpretare gli "oggetti" come "sistemi" e non viceversa i sistemi come oggetti. Le società ipercomplesse saranno sempre più anche società interculturali, segnate da conflitti che noi dobbiamo provare a mediare: qui torna, ancora una volta, il ruolo strategico della comunicazione così come l’abbiamo intesa. Sono sfide che non possiamo ulteriormente rinviare.
Lei ha detto che «una cultura della complessità non può che basarsi su un cultura della responsabilità» e parla molto di inclusione. Invece pare delinearsi quasi un mondo in cui ci sarà spazio solo per gli high performers, mentre tutti gli altri nemmeno avranno più un lavoro, sostituiti dai robot…
Nel 2009 condussi una ricerca a seguito del terremoto dell’Aquila – città dove ho insegnato per lungo tempo - partendo da una studio empirico condotto su come la stampa e i media avevano raccontato il terremoto: ho scelto come titolo “La società dell’irresponsabilità”. Proprio a voler sottolineare come siamo in un contesto in cui atti e fatti molto gravi possono avvenire nel pieno rispetto delle leggi e delle normative, dell’osservanza formale delle regole e delle procedure. Una dimensione, quella della responsabilità, che riguarda da vicino la libertà, gli stessi concetti di libertà e responsabilità andrebbero ripensati in chiave relazionale, perché presuppongono il Noi, non l’Io.
Ma una cultura della responsabilità non può mai essere imposta dall’alto (come l’etica), o veicolata attraverso sofisticate campagne di comunicazione/marketing; deve essere socialmente e culturalmente costruita fin dai primi anni di vita e, poi, di studio. Sono la Scuola e le altre agenzie di socializzazione le vere responsabili di questo processo così importante che riguarda direttamente anche le tematiche inerenti la legalità, la corruzione, la prevenzione, il rispetto dell’Altro da noi, il nostro vivere insieme etc. Il tema della responsabilità è centrale e si riaggancia alle questioni precedentemente trattate. Complessità e pensiero sistemico presuppongono un’attenta valutazione delle variabili coinvolte e delle conseguenze. Essere educati alla complessità, al metodo scientifico, al pensiero critico e sistemico, porta con sé un’epistemologia dell’incertezza (Morin) e un’attenzione anche per il (noto) principio di precauzione.
Mai come in questo momento l’evoluzione culturale è in grado di condizionare l’evoluzione biologica, per questo la tematica del cambio di paradigma è urgente. L’esigenza di ripensare i saperi, i percorsi, le logiche che animano la ricerca scientifica non è perché c’è l’intuizione di qualcuno ma perché la realtà ce lo richiede. È la realtà che è sempre più interconnessa e interdipendente, è la realtà che ci chiede di superare queste logiche di separazione.
Superare la dicotomia tra formazione umanistica e formazione scientifica è troppo importante, dal momento che non possiamo più permetterci il lusso neanche di formare soltanto tecnici e questo proprio perché siamo in una civiltà ipertecnologica e perché le implicazioni della civiltà ipertecnologica sono sociali, politiche, culturali, riguardano tutti…le identità, le soggettività, la vita nel suo complesso. Il tema del cambio di paradigma non è uno slogan, in una frase potremmo dire che le straordinarie scoperte scientifiche di questi anni - la manipolazione genetica, l’intelligenza artificiale, la robotica, la possibilità di sostituire parti del corpo, le cellule staminali - ci obbligano a rivedere tutte le categorie, e le relative definizioni operative, a cominciare da quelle di coscienza e vita. Questo cosa mette in evidenza? Che mai come in questo momento l’evoluzione culturale è in grado di condizionare l’evoluzione biologica, per questo la tematica del cambio di paradigma è urgente. L’esigenza di ripensare i saperi, i percorsi, le logiche che animano la ricerca scientifica non è perché c’è l’intuizione di qualcuno ma perché la realtà ce lo richiede. È la realtà che è sempre più interconnessa e interdipendente, è la realtà che ci chiede di superare queste logiche di separazione.
Come si collega a tutto questo il tema dell’inclusione?
Ci torno spesso: non soltanto è collegato, ma è intimamente collegato. Come ricordo spesso, le “regole d’ingaggio” della cittadinanza (globale) non vengono più definite dal legislatore, vengono definite e socialmente riconosciute nei luoghi in cui si producono i saperi e la conoscenza; si parla tanto di cittadinanza digitale, ma non esiste alcuna cittadinanza digitale se non sono garantite le condizioni della cittadinanza. E ci sarebbe da fare un lungo discorso anche sul tema della “meritocrazia” che, se non incrociata con altre variabili e inquadrata in un discorso più ampio sull’eguaglianza delle condizioni di partenza, rischia di rimanere la meritocrazia di chi ha più opportunità in partenza. Detto questo, non saranno certamente la tecnologia e il digitale a garantire l’inclusione e la cittadinanza, perché le regole di ingaggio della cittadinanza non sono più scritte dal legislatore.
Non saranno la tecnologia e il digitale a garantire l’inclusione e la cittadinanza, perché le regole di ingaggio della cittadinanza non sono più scritte dal legislatore. I diritti e i valori della cittadinanza vengono sempre più scritti nei luoghi in cui si produce e di distribuiscono informazioni e conoscenza, la scuola e l’università. Ecco perché una scuola e un’istruzione non di qualità sono i prerequisiti per una società che non potrà che essere sempre più profondamente diseguale.
Fino ad ora la “cittadinanza” è stata definita soprattutto come una questione di tipo giuridico, è la legge che definisce e configura i diritti e i principi della cittadinanza che, in molti casi, sono garantiti solo su carta. Ma – ribadisco con forza - i diritti e i valori della cittadinanza, nella società della conoscenza, vengono sempre più scritti e definiti nei luoghi in cui si produce e di distribuiscono informazioni e conoscenza, la scuola e l’università: è lì che si definiscono le regole di ingaggio. Ecco perché una scuola e un’istruzione non di qualità sono i prerequisiti fondamentali per una società che non potrà che essere sempre più profondamente diseguale. Nell’analisi e gestione di questa crisi che stiamo attraversando – perché questo è l’altro elemento di contesto di cui dobbiamo tenere conto - abbiamo sottovalutato variabili e dimensioni culturali: è una crisi solo in parte economica. Non ho fatto citazioni accademiche per tutta la nostra conversazione, ma qui è necessario: Max Weber diceva che il mercato, se lasciato alla sua autonormatività, conosce soltanto una dignità della cose e non una dignità della Persona. Questa è la sfida ulteriore. Ecco perché è necessario e urgente mettere mano all’educazione e alla formazione. Con la Cultura, sono da sempre gli unici veri agenti di una cittadinanza (ormai globale) e di una democratizzazione dei processi sociali che, per ora, sono soltanto raccontate, immaginate e riconosciute “su carta”.