Benvenuti,

Questo blog è l'espressione di creatività innovativa nel campo della difesa ambientale

"il tutto si crea e il tutto si trasmuta….la trasformazione è solo un'eccezione"

Ogni atomo ponderabile è differenziato da un fluido tenue, che riempie tutto lo spazio meramente con un moto rotatorio , proprio come fa un vortice di acqua in un lago calmo. Una volta che questo fluido – ovvero l’etere – viene messo in movimento, esso diventa grossolana materia. Non appena il suo movimento viene arrestato la sostanza primaria ritorna al suo stato normale...

Nikola Tesla


giovedì 14 marzo 2019

CBD = Sviluppina

Autistic Boy Gains Ability To Speak After Just 2 Days Of Cannabis Oil Treatment

At 10 months of age, Kalel Santiago of Puerto Rico was diagnosed with a rare form of cancer called neuroblastoma. He endured chemotherapy, radiation treatments, and surgery for two yearsand survived. Then he was diagnosed with something permanent: severe autism that disabled him from speaking.
“While he was in the hospital, we noticed he didn’t speak at all and had some behavior that wasn’t right, like hand flapping, and walking on his toes,” his father Abiel Gomez Santiago told Yahoo News. “But we waited until he was 3 and cancer-free to look at his behavior.”
According to Yahoo, “He and his wife Gladys — also parents to two older boys, now 18 and 20 — did a cram course in educating themselves on autism. They tried various schools and therapies and eventually found impressive success with a unique surf-therapy school near their home.”
Eventually, the Santiago family stumbled upon a treatment of real potency and potential: CBD oil.
Through a fundraising program, they were able to receive a tiny bottle of the oil. Kalel was given oral doses twice a day.
WITHIN JUST TWO DAYS, HE WAS FINALLY ABLE TO SPEAK. “HE SURPRISED US IN SCHOOL BY SAYING THE VOWELS, A-E-I-O-U. IT WAS THE FIRST TIME EVER,” ABIEL SAID. “YOU CAN’T IMAGINE THE EMOTION WE HAD, HEARING KALEL’S VOICE FOR THE FIRST TIME. IT WAS AMAZING. THE TEACHER RECORDED HIM AND SENT IT TO MY WIFE AND ME AND WE SAID WELL, THE ONLY DIFFERENT THING WE HAVE BEEN DOING IS USING THE CBD.”
Soon after, he began using consonants, too, speaking like his parents never thought possible. “He said, ‘amo mi mama,’ ‘I love my mom,’” Abiel says. “I don’t know how to thank [the CBD oil makers].”
Kalel’s story is yet another piece of evidence piling onto the mountain of support for cannabis oil and full marijuana legalization. Please share this with as many people as possible.



martedì 30 ottobre 2018

Microplastiche: che cosa sono e come possiamo evitarle

  
Perché negli ultimi anni si parla tanto di inquinamento da microplastiche? In quali prodotti si trovano e quali pericoli comportano?

Che cosa sono le microplastiche?

Le microplastiche sono minuscoli frammenti di plastica, più piccoli di un chicco di riso, la cui dimensione va dai 330 micrometri ai 5 millimetri, contenuti tra gli altri, in diversi prodotti per la cura del corpo e che stanno inquinando in maniera irreparabile mari e  corsi d'acqua perché sfuggono ai sistemi di filtraggio degli impianti di trattamento delle acque.

Il problema dell'inquinamento da microplastiche è divenuto talmente diffuso, da riuscire a contaminare persino il 90% del sale da cucina che consumiamo. Un recente studio condotto da Greenpeace in collaborazione con l'Università di Incheon in Corea del Sud che ha preso in esame 39 campioni di sale marino, di miniera e di lago, ha rivelato infatti che almeno 36 campioni, quindi il 90% circa, risultavano contaminati di microplastiche di Polietilene, Polipropilene e Polietilene Tereftalato (PET).
 
sale
 
Queste particelle sono ormai entrate nella nostra catena alimentare, a dimostrarlo è un'altra recente ricerca che ha analizzato le feci di persone provenienti da Europa, Giappone e Russia e tutte quante risultavano contaminate da circa nove tipi di plastica, con frammenti di dimensioni variabili, da 50 a 500 micrometri. Anche in questo caso i materiali più comuni erano il polipropilene e polietilene tetraftalato. In base a questo studio i ricercatori affermano che il 50% della popolazione mondiale potrebbe avere microplastiche nell'intestino.

E' evidente che il sistema di produzione e imballaggio di molti prodotti che usiamo ogni giorno sia diventato deleterio per l'ambiente in cui viviamo e che sia nostro compito come consumatori quello di attuare comportamenti rispettosi e consapevoli premiando, quando facciamo la spesa, le aziende più virtuose.

Dove si trovano le microplastiche?

Le microplastiche sono ingredienti diffusi in moltissimi prodotti cosmetici di uso quotidiano come dentifrici, esfolianti, trucchi.
 
spazzolino

1. Dentifrici: da ormai diversi anni sono stati introdotti nel mercato molti dentifrici che contengono "microgranuli" che grazie all'effetto esfoliante che sentiamo quando spazzoliamo i nostri denti, ci fanno sentire più freschi e puliti. Peccato però che queste microsfere siano spesso minuscoli pezzetti di plastica che sfuggendo ai filtri, finiscono nei nostri mari, risultando letali per le creature marine. Inoltre, se accidentalmente ingeriti, potrebbero comunque avere effetti negativi anche sulla nostra salute.

2. Prodotti esfolianti per viso e corpo.

Un'altra grande fonte di inquinamento sono gli scrub per viso e corpo, in quanto anch'essi spesso contengono grandi quantità di microgranuli fortemente inquinanti. Con uno studio condotto all'interno della Commissione Ambiente del Parlamento inglese nel 2016, si è calcolato che con una singola doccia possiamo sversare nel mare circa 100mila particelle e che solo nel Regno Unito vengono utilizzate circa 680 tonnellate di microplastiche all'anno.

Esistono già molti prodotti alternativi che ci permettono di prenderci cura del nostro corpo in modo rispettoso per l'ambiente e che utilizzano, al posto delle microplastiche, ingredienti naturali ed ecosostenibili come semi di kiwi, sali marini, noccioli di pesca e albicocca macinati.

3. Prodotti per il Makeup

Purtroppo molti cosmetici tradizionali (mascara, fondotinta, blush, rossetti, eyeliner..) potrebbero contenere plastica, spesso polietilene, polipropilene, o polietilene tetraftalato del quale ad esempio sono fatti i glitter, che non sono altro che pezzetti di plastica luccicante.

 glitters

Quindi, ogni volta che ci laviamo i denti, facciamo la doccia o ci (s)trucchiamo potremmo mettere in circolo migliaia di pezzetti di plastica che poi andranno a sporcare e contaminare mari, laghi e fiumi. Queste particelle inoltre, non costituiscono solo un problema per l'ambiente, ma il loro utilizzo potrebbe danneggiare la nostra salute causando, fra le altre cose, allergie, problemi respiratori, disordini di carattere endocrino.

Come evitare dunque l'uso delle microplastiche?

Fortunatamente, esistono già molte alternative ecologiche che ci consentono di preservare il nostro benessere fisico, rispettare il nostro pianeta e premiare aziende etiche.

Quando scegliamo un dentifricio e altri prodotti per il make-up e la cura del corpo, facciamo prima di tutto attenzione all'etichetta, verificando che non contengano questi ingredienti:

1. Polietilene (Polyethylene)

2. Polipropilene (Polypropylene)

3. Polietilene Tereftalato (Polyethylene Terephtalate)
 
La scelta di prodotti cosmetici ecobio è sicuramente il modo più giusto e semplice che ci permette di coniugare salute e rispetto per la natura.

Le microplastiche derivano anche dalla scomposizione di manufatti di plastica più grandi, quindi come cittadini consapevoli è nostro dovere mettere in atto comportamenti responsabili che privilegino imballi naturali o riciclabili e favoriscano la raccolta differenziata di tutti i materiali, evitando in questo modo la contaminazione dell'ambiente in cui viviamo.


Fonti:
https://pubs.acs.org/doi/10.1021/acs.est.8b04180
https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S0025326X17307518
https://publications.parliament.uk/pa/cm201617/cmselect/cmenvaud/179/17902.htm?utm_source=179&utm_medium=fullbullet&utm_campaign=modulereports
https://www.theguardian.com/environment/2018/oct/22/microplastics-found-in-human-stools-for-the-first-time

venerdì 26 ottobre 2018

La disinfezione, quanta confusione


La pubblicità ci bombarda costantemente con la necessità di disinfettare  le nostre case. Ascoltando radio e TV sembrerebbe che le abitazioni siano costantemente sotto assedio e noi in pericolo di vita. Sebbene questa sia una dura verità (noi viviamo costantemente a contatto con milioni di virus e batteri) non vuole dire che dobbiamo per forza vivere sotto una campana di vetro.
E' bena sapere che per la normativa italiana si possono fregiare del titolo di disinfettanti solo quei prodotti che hanno ricevuto una specifica autorizzazione dal Ministero della Sanità. Sulle confezioni di questi prodotti troviamo scritto
PRESIDIO MEDICO CHIRURGICO, REGISTRAZIONE MINISTERO SANITA’ N. XXXXX.
Se non è presente questa frase non è possibile utilizzare la dicitura disinfettante. A nulla servono nomignoli come igienizzante o sanificante che nulla hanno da spartire con la disinfezione. Un secchio d’acqua versato su una deiezione canina svolge un effetto sanificante in quanto, asportando parte dello sporco, migliora le caratteristiche igieniche, ciò non vuole dire che sopra ci possiamo apparecchiare la tavola.
La presenza batterica comunque è efficacemente contrastata dai nostri anticorpi che ci difendono dagli attacchi, a patto che:
- il numero di batteri non sia esageratamente elevato. Vivere in un ambiente sporco aumenta il rischio di contagio quindi è necessario mantenere una buona pulizia. Questo perché lo sporco è un ottimo cibo per germi e batteri quindi più sporco più cibo e maggiore carica batterica. Per contro una buona pulizia mantiene la carica batterica a livelli più che accettabili e non pericolosi.
- il nostro organismo sia in buona salute. Abbiamo detto che gli anticorpi ci difendono bene dagli attacchi esterni a patto che non siamo in quel momento debilitati. L’età poi è molto importante, bambini sotto i 3 anni ed anziani sono certamente più deboli e più facilmente vulnerabili.
Nelle nostre case, salvo casi particolari, è di solito sufficiente mantenere una pulizia adeguata senza bisogno di utilizzare disinfettanti chimici tra l’altro piuttosto inquinanti e non sempre del tutto innocui.
Evitiamo poi l’uso di candeggina assolutamente inutile per pulire, molto inquinante e con poteri disinfettanti non sempre certi.
Molti siti in rete consigliano disinfettanti naturali a base di olio essenziali, aceto, limone, acqua ossigenata, bicarbonato ecc.
Ripeto fino alla nausea che in casa salvo casi particolari non serve disinfettare, ma è sufficiente mantenere una buona pulizia. Comunque ammettiamo pure che sia necessario intervenire con un disinfettante, possono questi rimedi naturali metterci al sicuro?
A mio avviso no.
Prima di proseguire ricordiamo che nella disinfezione vengo uccisi almeno il 99% di germi e batteri nonchè qualsiasi forma di vita.
Per poter sterminare questi esseri viventi è necessario prima di tutto ridurli allo stremo delle forze togliendo loro il cibo quindi eliminando a fondo lo sporco, loro principale fonte di nutrimento.
Quindi sulla superficie pulita, risciacquata ed asciugata si utilizzano i disinfettanti.
La disinfezione è un’operazione importante che va eseguita con tecnica e capacità se si vogliono raggiungere buoni risultati.
Una disinfezione efficace è influenzata da:
- perfetta pulizia
- prodotto utilizzato
- dosaggio
- tempo di contatto
- temperatura
- pH
- risciacquo
Analizziamo ora i punti uno per uno.

PERFETTA PULIZIA
Utilizziamo un detergente appropriato e seconda del tipo di sporco che dobbiamo rimuovere. Ricordiamoci di risciacquare a fondo ed asciugare la superficie. Non possiamo disinfettare lo sporco dobbiamo prima eliminarlo a fondo.

PRODOTTO UTILIZZATO
Leggo in rete molte ricette di disinfettanti fatti in casa a base di aceto, olio essenziali, acqua ossigenata, ecc. A mio avviso possono andare bene tutti se voglio dare un “colpo” al water o al ripiano della cucina. Certo non mi fiderei a disinfettare veramente strumenti o superfici sensibili. Prendiamo ad esempio l’aceto indicato spesso come ottimo disinfettante. L’aceto in realtà non è in grado di uccidere veramente germi e batteri ma piuttosto ne impedisce la moltiplicazione. L’aceto infatti viene anche utilizzato come conservante proprio per questa sua caratteristica. Germi e batteri non vivono volentieri in ambienti acidi. Anche il nostro organismo usa il PH acido per difenderci. Il PH della pelle e delle mucose intime ad esempio è leggermente acido proprio per ostacolare la proliferazione batterica.
Esiste poi il problema legato l’assuefazione dei micro organismi ai disinfettanti con la conseguenza di creare ceppi batterici resistenti. Questo problema è ben noto in medicina con il moltiplicarsi dei super batteri resistenti agli antibiotici ma la stessa cosa succede anche nel campo delle pulizie. Negli ospedali ci sono tabelle specifiche per alternare gli interventi di disinfezione cambiando ogni 3 mesi il principio attivo utilizzato. Si è provato infatti che in tale periodo germi e batteri non sviluppano assuefazione ai prodotti usati. Utilizzare quindi per anni lo stesso prodotto disinfettante potrebbe causare seri problemi.

DOSAGGIO
Nei prodotti disinfettanti fatti in casa si dà generalmente poca importanza al dosaggio. Utilizzare un disinfettante che non è in grado di uccidere germi e batteri può nel tempo provocare assuefazione.


TEMPO DI CONTATTO
Nelle ricette fai da te non ho mai letto istruzioni sul tempo di contatto. Qualsiasi disinfettante (a parte alcuni rari esempi) non agisce immediatamente ma ha bisogno di tempo. Normalmente si parla di 10 minuti a temperatura ambiente (20/25 gradi).

TEMPERATURA
La temperatura può influenzare il tempo di contatto. Alzando la temperatura si può teoricamente abbassare il tempo di contatto. Attenzione però, non tutti i prodotti possono essere utilizzati a temperature elevate.

pH
Il pH è un punto dolente delle disinfezione. Molti prodotti disinfettanti specie se a base di sali d’ammonio quaternari agisco solo in uno stretto spicchio di pH che va da 6 a 8. É quindi necessario dopo l’utilizzo di un qualsiasi detergente risciacquare molto bene prima di passare alla fase di disinfezione. Addirittura in alcuni rari casi è anche necessario neutralizzare.

RISCIACQUO
Dopo avere disinfettato è necessario risciacquare oppure no? Prima di rispondere a questa domanda è doveroso porsi un’altra domanda. Dopo la disinfezione cosa succede? Con tale pratica abbiamo eliminato il 99% di tutti gli esseri viventi sulle superfici. Ma questi tentano ben presto di  riprendersi il terreno perduto. Il ritorno dello sporco e quindi del cibo, naturalmente li aiutano nello scopo. Il disinfettante quindi oltre che ad una azione immediata espleta anche un effetto barriera contro la proliferazione batterica chiamato effetto batteriostatico. Questa caratteristica non mira all’uccisione dei micro organismi ma ne impedisce la riproduzione. Se risciacquiamo le superfici perdiamo questa importante peculiarità del disinfettante. Attenzione però, se l’oggetto del nostro intervento è una affettatrice, un frullatore un coltello o qualsiasi cosa vada a contatto con alimenti, è assolutamente necessario risciacquarlo prima dell’utilizzo (come impone anche la normativa).

Come avrete notato disinfettare è una tecnica piuttosto importante e complessa che deve essere posta in atto solo se assolutamente necessaria. In caso contrario è inutile, dispendiosa e inquinante. Ricordiamoci sempre che nella disinfezione uccidiamo degli esseri viventi e per fare ciò dobbiamo utilizzare dei “veleni”. Ma anche noi siamo esseri viventi e quei veleni possono nuocere anche a noi. I disinfettanti ambientali in commercio sono quasi tutti a base di sali d’ammonio quaternari (ALCHILDIMETILBENZILAMMONIO CLORURO) altamente tossici ed inquinanti.
Quindi meno ne usiamo e meglio è per tutti.
In casa poi, salvo casi particolari, del tutto inutili.
Ma se le vostra scrupolosa coscienza nonché maniacale voglia di disinfettare ogni cosa ve lo impone, usate pure aceto, limone e quant’altro ma evitate gli oli essenziali non proprio del tutto innocui.

venerdì 21 settembre 2018

Applications of Nanobubbles


Some of the applications of nanobubbles which have been explored to date are listed below:
  • Acceleration of metabolism in vegetables and shellfishes
  • Microfluidics
  • Water treatment by flotation - their high specific area makes them useful in this field
  • Contrast agents for ultrasonography
  • Sterilization using ozone gas
  • Foam products in the food industry and other products requiring bubble stability.
  • Nutritional supplement carrier in the food industry

Rice University researchers used nanobubbles to enhance chemotherapy treatments, enabling targeting of single cancer cells with the drugs.

Recent Developments

Physicists in the Netherlands recently demonstrated the prolonged stability of nanobubbles on wet surfaces - their nanobubbles remained stable for several days. These physicists went on to compare these tiny bubbles to the bubbles found in a champagne or beer glass. They arrived at a conclusion that the longevity of these bubbles is mainly because of two significant physical properties:


  1. The gas molecules on the surface of the bubble leaves the surface in a perpendicular direction
  2. The gas molecules generally move from one side of the bubble to the other side without touching each other because of the small size of these nanobubbles. This movement allows free flow of the liquid along the bubbles and in turn pushes the gas molecules to the surface of these small bubbles, thus increasing their stability.

Physicists from the Lawrence Berkeley National Laboratory and UC Berkeley discovered that nanobubbles can be formed when graphene is stretches in a particular manner. Nanobubbles formed in this way will have electrons that behave in a very strange manner - as if they were moving in a very strong magnetic field.
Recently, the medical field has also seen major discoveries relating to nanobubbles. Researchers from the University of Texas MD Anderson Cancer Center, Rice University and Baylor College of Medicine are concentrating on the development of new techniques to directly inject genetic payloads and drugs into cancer cells.
These researchers found that this new nanobubble injection mechanism ignores the healthy cells, favouring cancer cells. They showed that the delivery of chemotherapy drugs with nanobubbles is 30 times more effective at killing cancer cells, reducing the required dosage compared to conventional treatment.
In another experiment, scientists at Rice University developed a cancer treatment technique using lasers to zap nanoparticles inside the cells, creating nanobubbles. These nanobubbles are formed when the short laser pulses strike the gold nanoparticles, and cause damage to the cancer cells. This experiment was focused on identifying and treating cancer cells in the initial stages.

Conclusion

All these discoveries highlight the wide spread applications of nanobubbles in various fields. Nanobubbles due to their very small size and high stability can be very useful in treating cancer, simplifying technical operations and can even act as a nutritional supplement carrier in the food industry. These applications emphasize the growing significance and demand for nanobubbles in all walks of life.

Sources

 

domenica 22 luglio 2018

MAVRO International - NitoCoat presentatie









     



Ecco il nuovo protettivo rigenerante per faciate in AlucoBond e similari o verniciato a caldo, il protettivo dona il colore originale e un lucido superficiale che fà tornare nuove le superfici. Applicazione a rullo o spray, economico e garantito 20 anni.

giovedì 21 giugno 2018

New nanomaterial fusion sintering method could lead to faster cheaper thin film devices

https://advancedmanufacturing.org/new-nanomaterial-fusion-sintering-method-could-lead-to-faster-cheaper-thin-film-devices/


New Nanomaterial Fusion Sintering Method Could Lead to Faster, Cheaper Thin-Film Devices

Researchers at Rutgers University (New Brunswick, NJ) and Oregon State University (Corvallis, OR) are working on a new technique to process nanomaterials that shows promise for faster and cheaper methods of making flexible thin-film devices, ranging from touchscreens to window coatings.
Scanning electron microscopy images of silver nanoparticle-nanowire mixtures before after IPL
Scanning electron microscopy images of silver nanoparticle-nanowire mixtures before after IPL. Length scale in red is 500 nm. Image credit: RSC/Rutgers
Using a method called “intense pulsed light sintering,” or IPL, the researchers used high-energy light over an area nearly 7000 times larger than a laser to fuse nanomaterials in seconds. The existing method of pulsed light fusion uses temperatures of around 250° C (482° F) to fuse silver nanospheres into structures that conduct electricity.
However, a new study, published in the Royal Society of Chemistry’s RSC Advances and led by Rutgers School of Engineering doctoral student Michael Dexter, showed that fusion at 150° C (302° F) works well while retaining the conductivity of the fused silver nanomaterials.
That RSC study, “Controlling processing temperatures and self-limiting behavior in intense pulsed sintering by tailoring nanomaterial shape distribution,” is available at http://pubs.rsc.org/en/content/articlehtml/2017/RA/C7RA11013H.
“Pulsed light sintering of nanomaterials enables really fast manufacturing of flexible devices for economies of scale,” said Rajiv Malhotra, the study’s senior author and assistant professor in the Department of Mechanical and Aerospace Engineering at Rutgers-New Brunswick. “Our innovation extends this capability by allowing cheaper temperature-sensitive substrates to be used.”
The research on IPL of nanomaterials began about 2009. Rutgers researchers, in collaboration with Oregon State Professor Chih-Hung Chang, have been working on IPL since 2015 via funding by the National Science Foundation and the Walmart Manufacturing Innovation Foundation, according to Malhotra. “We are currently working on expanding the capabilities of IPL by looking at rapid and scalable sintering of non-metallic materials on a variety of flexible substrate beyond polymers,” Malhotra added.
The engineers’ achievements started with silver nanomaterials of different shapes: long, thin rods called nanowires in addition to nanospheres. The sharp reduction in temperature needed for fusion makes it possible to use low-cost, temperature-sensitive plastic substrates like polyethylene terephthalate (PET) and polycarbonate in flexible devices without damaging them.
Fused silver nanomaterials are used to conduct electricity in devices such as radio-frequency identification (RFID) tags, display devices and solar cells. Flexible forms of these products rely on fusion of conductive nanomaterials on flexible substrates, or platforms, such as plastics and other polymers.
“The next step is to see whether other nanomaterial shapes, including flat flakes and triangles, will drive fusion temperatures even lower,” Malhotra said.
In another study, “Temperature, Crystalline Phase and Influence of Substrate Properties in Intense Pulsed Light Sintering of Copper Sulfide Nanoparticle Thin Films,” published in Scientific Reports, the Rutgers and Oregon State engineers demonstrated pulsed light sintering of copper sulfide nanoparticles, a semiconductor, to make films less than 100-nm thick.
“We were able to perform this fusion in two to seven seconds compared with the minutes to hours it normally takes now,” said Malhotra, the study’s senior author. “We also showed how to use the pulsed light fusion process to control the electrical and optical properties of the film.”
Rajiv Malhotra, professor at Rutgers University, and doctoral student Michael Dexter
Rajiv Malhotra, professor at Rutgers University, and doctoral student Michael Dexter (right) work on a Uv-Visible-Near Infrared characterization of post-IPL samples. Photo credit: Rajiv Malhotra, Rutgers University
Their discovery could speed up the manufacturing of copper sulfide thin films used in window coatings that control solar infrared light, transistors, and switches, according to the study. This work was funded by NSF and The Walmart Manufacturing Innovation Foundation.
Malhotra, who graduated from Northwestern University in 2012 with a doctorate in Mechanical Engineering, worked at Oregon State as an assistant professor in 2014 and joined the department of Mechanical and Aerospace Engineering at Rutgers University in 2017. His research focuses on understanding the behavior of materials during manufacturing, often leading to innovation of processes that enable greater performance, lower costs, increased scalability and greater product customization. His work involves combining both computational models and experiments, and his research has recently focused heavily on scalable additive manufacturing with metallic and semiconductor nanomaterials using large-area applied electromagnetic fields.
“IPL has been used to fabricate components of solar cells, RFID devices, microscale touchpads, and personal heaters. We are currently trying to extend the capabilities of IPL towards non-metallic materials and trying to drive down the maximum temperatures during sintering to enable an even wider range of wearable, flexible and conformal devices to be manufactured in a scalable manner,” Malhotra said.
“The IPL method is a proven process for many metallic materials and some non-metallic materials, he added. “We are trying to develop an understanding of the process and the ways in which it affects material properties after IPL so that control of the process and full utilization of its potential capabilities can be achieved,” Malhotra explained. “At the same time, we are currently pursuing industrial collaborations for using IPL for both wearable and conformal devices.”

Tech Papers from SME Journals and Manufacturing Letters

These summaries, excerpts, and web links are from recent papers published in the SME Journal of Manufacturing Systems, Journal of Manufacturing Processes, and Manufacturing Letters, which are printed by Elsevier Ltd. and used here with permission.

Cyber-Human Systems Framework for Cyber-Physical Systems

In their paper, “A complementary Cyber-Human Systems framework for Industry 4.0 Cyber-Physical Systems,” authors Matthew Krugh and Laine Mears of the Clemson University International Center for Automotive Research, Greenville, SC, describe the human aspect of new cyber-physical manufacturing in emerging automotive manufacturing models. Their paper, to be published in an upcoming issue of Manufacturing Letters, is available online at https://doi.org/10.1016/j.mfglet.2018.01.003.
connected elements of modern Industry 4.0
The connected elements of modern Industry 4.0; what is the human’s role? Image credit: Elsevier Ltd.
Humans are a vital element to automotive manufacturing; however, skilled production personnel have largely been designated as data receivers in Cyber-Physical Systems (CPS) of Industry 4.0. A renewed focus on the human worker who completes significant portions of manual value-added content in automotive assembly through Cyber-Human Systems (CHS) is allowing humans to perform their jobs more safely, efficiently, and supporting enhanced control and quality monitoring of manual manufacturing tasks. There is a need for a unified complementary framework of CHS and CPS to guide the implementation of future smart manufacturing systems.
Humans are the backbone of automotive manufacturing; by playing a malleable role in production from master craftsman, to assembly associate, to engineer, the human worker has proven time and again to be manufacturing’s most flexible system. The automotive manufacturing industry is currently embracing Industry 4.0 in which the many disparate data systems are connecting together within an intelligent Cyber-Physical System environment to bridge the real and virtual worlds, to better enable a deeper understanding of the dynamics of manufacturing, but the human’s role in this evolution is not clearly defined.
Current trends in Industry 4.0 automation tend to displace the human worker in automotive manufacturing or places them into a supervisory role such as described by Ohno in 1988 as Autonomation to provide machines with access to higher intelligence. Due to the unique nature of automotive assembly comprising a significant portion of a vehicle’s total production time, and increasing manufacturing complexity requiring highly flexible processes, there has been a demonstrated pushback toward increasing the number of human assembly workers as automation cannot handle the increasing variety in vehicles from manufacturers such as BMW AG, Mercedes, and Toyota. This poses an opportunity to expand the view of human production personnel in Industry 4.0 from predominantly receivers of information to generators, collectors, and users; just as production tools and equipment have been transformed and connected under Industry 4.0, so, too, should the purview of the human capacity to supply, receive, and abstract information.

lunedì 12 marzo 2018

L'acqua e i limiti del mondo


di Gunter Pauli – La Terra è uno strano pianeta. É coperta per il 70% da acqua, ma si chiama Terra. Il nostro pianeta è circondato da un volume di circa 1,4 miliardi di Km cubi d’ acqua, ma il 97% è acqua salata, il 2% è congelato sotto forma di ghiacciai e solo l’1% è disponibile come acqua potabile.
Sembra quindi imperativo riciclare l’acqua e non sprecarla. É senza ombra di dubbio il nostro bene più prezioso.
Le acque reflue assumono quindi un’importanza strategica. Si stima che in tutto il mondo solo il 14% di tutte le acque reflue siano trattate. In America Latina e Africa, meno del 2% delle acque reflue viene depurato.
La popolazione mondiale passerà dagli attuali 7 miliardi di oggi, a 8 nel 2030, a circa 10 miliardi entro il 2050. Tre quarti dei cittadini del mondo vivranno in città. Concretamente, potremmo dover costruire quotidianamente una nuova città ogni 200.000 abitanti per i prossimi 40 anni.
Ciò metterà enormemente in risalto l’approvvigionamento di acqua potabile e richiederà anche massicci investimenti in impianti di trattamento delle acque. Normalmente i governi preferiscono investire nella fornitura di acqua potabile, che costa cinque volte di più che del trattamento delle acque reflue. Questo squilibrio spiega in pratica perché due milioni di persone muoiono ogni anno di malattie prevenibili, diffuse attraverso l’acqua non trattata.
Studi della Banca Mondiale dimostrano – a sorpresa di molti – che l’inquinamento fecale peggiora con la crescita dei paesi più ricchi (e i sistemi fognari invecchiano). La rete fognaria della maggior parte delle aree urbane si deteriora e richiede interventi di risanamento o di riqualificazione. Circa il 30% di tutte le acque reflue in Svezia semplicemente non raggiunge gli impianti di trattamento e contamina le acque sotterranee con virus e prodotti chimici. Circa il 17% della rete fognaria pubblica tedesca deve essere ricostruito, circa 76,000 chilometri.
Non parliamo di quella italiana.
Il Canada ha calcolato che nei prossimi 15 anni le sue infrastrutture per la depurazione e il trattamento delle acque reflue richiederanno circa 80 miliardi di dollari. Il costo per portare fognature e impianti di trattamento delle acque nelle aree urbane e periurbane, costa fino a 1.000 dollari per cittadino nel Terzo Mondo, e fino a 8.000 dollari nelle nazioni industrializzate.
In un momento come questo, è difficile immaginare che i politici disporranno dei fondi necessari per investire nella sanità pubblica in tale misura. Quindi direi che è inutile parlarne.
Cosa si può fare?
Abbiamo regolamenti sanitari rigorosi e bilanci pubblici ristretti, non ci resta che innovare e diminuire la spesa. Le soluzioni non chimiche sono quindi sempre più favorite. L’opzione chimica più economica è il cloro, ma gli operatori degli impianti sono alla ricerca di alternative meno tossiche.
Bertil Eriksson, Svezia, ha studiato i flussi di acqua e aria attraverso gli edifici e ha progettato una semplice rete di tubi, controllati da valvole, che consente il trattamento di tutta l’acqua in ogni edificio senza la necessità di fosse settiche.
Il suo sistema tratta tutti i rifiuti derivanti dall’acqua di cucina, doccia e servizi igienici attraverso una combinazione di ventilazione, recupero di calore, purificazione dell’acqua e sistemi di drenaggio. L’obiettivo è eliminare il rischio di contaminazione, riducendo nel contempo le spese per i comuni e preservando l’ambiente, in particolare le acque sotterranee.
Questo sistema integrato è coperto da una serie di brevetti che costituiscono la spina dorsale della tecnologia “SplitBox”.
Questo è un sistema che offre molteplici vantaggi, proprio come tutti i sistemi naturali. Prima di tutto si risparmia sulla costruzione. In secondo luogo, lo SplitBox recupera energia dall’essiccazione, dalle acque di scarico domestiche calde e dalla ventilazione della casa.
In terzo luogo, gli scarichi dell’acqua nel pavimento servono anche come canali di ventilazione per convogliare l’eccesso di umidità di alcuni locali (bagno) in ambienti con umidità troppo bassa (camera da letto). In quarto luogo, le feci e la carta vengono lavorate in uno speciale sistema di essiccazione, dove vengono miscelate con i rifiuti organici della cucina.
Infine, le sostanze nutritive, in particolare il potassio estratto dalle urine attraverso un processo combinato di precipitazione/assorbimento seguito da un’ossidazione delle acque reflue, lascia l’acqua completamente pura.
Inoltre la sostanza secca, esente da batteri e virus può essere venduta sul mercato come fertilizzante. Questo è gestito tramite un contatore 2x1x2 per una casa di famiglia.
Sembra incredibile, ma è già realtà.

venerdì 23 febbraio 2018

Noi utiliziamo la chimiurgia per fabbricare i nostri detergenti bio !

Cosè la Chimiurgia?

Chemiurgia (Chemurgy in inglese, dal greco chemeia «chimica» ed ergon «lavoro») è un termine nato in America negli anni trenta per definire quella branca dell'industria e della chimica applicata che si occupa della preparazione dei prodotti industriali esclusivamente da materie prime agricole e naturali, facendo uso solamente di risorse rinnovabili e senza recare danno all'ambiente.
La parola fu coniata dal chimico William J. Hale, che nel 1934 pubblicò il libro The Farm Chemurgic, per indicare «l'ottenimento di sostanze chimiche industriali dai prodotti agricoli».


Negli anni trenta, di fronte all'avanzare della rivoluzione industriale, il movimento della Chemiurgia si proponeva di trasformare ed integrare la produzione agricola con quella industriale, invece di abbandonare l'agricoltura a se stessa indirizzando tutti gli investimenti sull'industria. La chemiurgia puntava dunque ad usare prodotti vegetali, in particolare la canapa, pianta coltivata e diffusissima in America fino al suo proibizionismo, che era in grado di fornire all'industria grandissima parte delle materie prime di cui necessitava e che oggi si ricavano in gran parte dalla lavorazione del petrolio.




« Perché consumare foreste che hanno impiegato secoli per crescere e miniere che hanno avuto bisogno di intere ere geologiche per stabilirsi, se possiamo ottenere l'equivalente delle foreste e dei prodotti minerari dall'annuale crescita dei campi di canapa? »


Restava però ancora un pesante handicap per rendere la produzione di cannabis davvero competitiva. Il lavoro di separazione della fibra infatti andava fatto a mano, e questo rallentava notevolmente i tempi e i costi di produzione. L'invenzione di una nuova macchina, il "decorticatore", sembrò poter togliere questa barriera alla produzione industriale della cannabis, e delle altre fibre tessili ricavate dal fusto delle piante, prospettandone un successo pressoché illimitato. La rivista Popular Mechanics pubblicò in quei mesi un articolo intitolato "La nuova coltivazione da un miliardo di dollari", nel quale si prospettava uno strepitoso rilancio a livello mondiale delle piantagioni di cannabis.[4]
Tuttavia queste premesse non poterono essere confermate, a causa delle leggi di proibizione che già nel 1937 vennero applicate alla coltivazione e al commercio della cannabis.
Alcuni ritengono che la proclamazione di queste leggi di proibizione nei confronti della cannabis negli Stati Uniti sarebbe stata legata alla concorrenza tra la nascente industria petrolchimica dei prodotti DuPont e la possibilità di usare l'olio di questa pianta per produrre fibre plastiche e come combustibile, ed altresì alla concorrenza della nascente industria della carta ricavata dal legno degli alberi, sminuzzato e sbiancato con sostanze chimiche, con la eventuale produzione industriale di carta di canapa.[5] Inoltre, il magnate del giornalismo William Randolph Hearst, uno dei più importanti sostenitori del proibizionismo della cannabis proprio con i suoi quotidiani, aveva acquistato milioni di ettari di foresta da legname, che intendeva utilizzare per produrre carta appunto per i suoi giornali, sempre più popolari.[6]
I principi della chemiurgia sono tornati alla ribalta negli ultimi anni, trattati con approcci diversi e soprattutto identificati con nuovi nomi, come nel caso della chimica verde.





MATERIE PRIME DI ORIGINE AGRICOLA COME FONTE DI APPROVVIGIONAMENTO PER L'INDUSTRIA

Ottilia De Marco
Professore emerito, Università di Bari



La biomassa vegetale ha fornito da sempre materie prime all'industria alimentare, tessile, navale, edilizia, cartaria, dell'arredamento ecc.

Con l'avvento dell'industria petrolchimica e l'affermazione sul mercato di altri materiali, alcune di tali industrie hanno tratto da altre fonti le loro materie prime, lasciando l'industria alimentare come sbocco prevalente della produzione vegetale. Il settore agricolo, d'altra parte, ha fatto troppo poco per incentivare e sviluppare l'uso dei suoi prodotti e sottoprodotti come materie prime industriali, pertanto si è avuta una stasi negli studi e nelle ricerche su queste sostanze.

Così, mentre le conoscenze nel campo petrolchimico e dei nuovi materiali si sono ampliate e approfondite, quelle riguardanti i prodotti vegetali sono ancora molto lacunose. Eppure le ricerche su questi argomenti oltre ad essere stimolanti per il fascino che sempre esercita la possibilità di scoprire i meccanismi di formazione dei prodotti della natura e le leggi che li governano, suscitano interesse sia per l'enorme disponibilità di tali materiali, sia per le applicazioni pratiche che da una loro profonda conoscenza possono derivare.

Ogni anno, col processo fotosintetico, vengono fissati sulle terre emerse circa 100 miliardi di tonnellate di carbonio, per circa due terzi sotto forma di materiali lignocellulosici e per circa un terzo sotto forma di amido, zuccheri e altre sostanze.

Nel passato, in un periodo di crisi, ci fu, negli Stati Uniti, un breve, ma intenso interesse per la trasformazione dei prodotti naturali in prodotti industriali. Agli inizi degli anni venti, infatti, William J. Hale, un chimico della Dow Chemical Co., lanciò un vasto movimento sociale, denominato Farm Chemurgic Movement, che aveva come obiettivo l'utilizzazione, nell'industria chimica, di materie prime derivanti dall'agricoltura.

Il termine chemurgia fu coniato dallo stesso Hale, dal greco chemeia (chimica) ed ergon (lavoro), per indicare l'ottenimento di sostanze chimiche industriali dai prodotti agricoli.

Il movimento attrasse l'attenzione e l'interesse di molti uomini importanti, a livello politico come Henry Wallace (ministro dell'agricoltura nella prima amministrazione Roosevelt, 1933), a livello industriale come Henry Ford e, a livello intellettuale come George Washington Carver (1865-1943), che si impegnarono a fondo in questa operazione. Molte idee nuove furono realizzate e molti studi furono condotti, nei settori più vari.

Negli anni trenta del Novecento, presso il Dipartimento dell'agricoltura degli Stati Uniti, furono istituiti quattro laboratori "chemurgici" regionali che divennero i maggiori centri di ricerca e di applicazione dei prodotti e sottoprodotti agricoli, soprattutto di quelli più ampiamente disponibili o dei quali si registravano regolarmente o stagionalmente delle eccedenze.

Henry Ford, oltre a finanziare i primi Convegni del National Farm Chemurgic Council, istituì a Dearbon, vicino a Detroit, un centro di ricerca sui prodotti agricoli, chiamato Edison Institute of Technology: uno dei primi e più importanti programmi di studio fu quello riguardante la soia .

Fra le realizzazioni della chemurgia va ricordata la produzione del furfurolo dalla pula di avena nello stabilimento di Omaha (Nebraska) della Quaker Oats; quando lo stabilimento fu chiuso, in seguito alla crisi del 1932, la riapertura fu determinata proprio dalla domanda di furfurolo e non da quella di farina di avena.

Altro esempio di applicazione industriale, dovuta alle ricerche effettuate in campo chemurgico, fu quello dell'uso del legno del pino meridionale per l'ottenimento di alfa cellulosa, sulla base degli studi condotti da Charles H. Herty. L'impiego di questa pianta portò alla nascita e allo sviluppo, nella parte meridionale degli Stati Uniti, dell'industria della cellulosa e della carta che precedentemente era accentrata nel nord e nord est del paese, alimentata con piante a crescita più lenta.

Questo fervore di idee e di iniziative fu interrotto dallo scoppio della Il guerra mondiale. In seguito, l'ampia disponibilità di petrolio a prezzo molto basso fece apparire economicamente poco conveniente l'utilizzazione di prodotti agricoli per l'ottenimento di sostanze chimiche industriali. Negli anni settanta del Novecento la crisi dell'energia e delle risorse e il degrado ambientale sembrarono riportare l'interesse verso la ricerca di nuove materie prime meno costose, più disponibili e suscettibili di trasformazione in merci meno inquinanti. Si cominciò a guardare con una certa attenzione alle fonti naturali, rinnovabili, alla cosiddetta biomassa. Da allora, però, pochi settori, come ad esempio quello della produzione dell'alcol per fermentazione e della sua utilizzazione come carburante, sono stati oggetto di studio e di sperimentazione industriale.

Il lavoro che resta da fare è perciò ancora molto e l'impegno di ricerca, che dovrebbe essere interdisciplinare, potrebbe portare a risultati di enorme interesse in vasti settori economici. Si indicano qui di seguito alcune linee di ricerca rivolte all'approfondimento delle conoscenze di base dei materiali vegetali, in vista di una loro migliore utilizzazione industriale.

Amido

L'amido è uno dei più abbondanti materiali vegetali: per fotosintesi se ne producono circa 50 miliardi di tonnellate l'anno, ma la produzione di amido industriale, nel mondo, si aggira, soltanto, intorno ai 20 milioni di tonnellate l'anno. È ricavato per il 75% dal mais e per il resto da grano, riso, patate, tapioca ecc.

A seconda della specie o della famiglia da cui proviene, esso presenta caratteristiche diverse tanto che si deve parlare dell'esistenza di "amidi" (al plurale), piuttosto che di amido. Una rassegna delle caratteristiche degli amidi presenti nei vari vegetali, con particolare attenzione alle piante che sono state finora poco utilizzate come fonti industriali di amido, potrebbe rappresentare un interessante argomento di ricerca. Sulla base dei risultati si potrebbe giungere ad una vera classificazione degli amidi e ad una eventuale loro più specifica utilizzazione.

Un secondo argomento di ricerca potrebbe essere lo studio dei complessi molecolari amido-lipidi e amido-proteine, presenti nelle diverse piante. La conoscenza della natura di questi complessi potrebbe fornire forse anche la spiegazione di certi fenomeni, come ad esempio, il rinvenimento del pane raffermo o il diverso comportamento alla macinazione del grano, del granoturco e del riso.

Sarebbe inoltre interessante approfondire la conoscenza del rapporto amilosio/amilopectina, i due costituenti dell'amido, il cui contenuto di solito è del 15-30% per l'amilosio e del 70-85% per l'amilopectina, ma che può variare nelle diverse piante con conseguente modificazione delle caratteristiche dell'amido.

Derivati importanti dell'amido sono, come è noto, le destrine e le ciclodestrine che, a secondo della loro provenienza o del loro processo di preparazione, manifestano proprietà particolari che le rendono adatte a varie applicazioni (come adesivi, emulsionanti, leganti, assorbenti ecc.) in settori merceologici diversi (alimentare, tessile, cartario, metallurgico ecc.).
Una ricerca approfondita sulla struttura di queste sostanze, di cui si sa ancora molto poco, potrebbe fornire suggerimenti per un impiego più vasto.

Zuccheri

Fra gli zuccheri, sostanze ampiamente diffuse in natura, il più commercialmente usato, come è noto, è il saccarosio che viene estratto principalmente dalla canna e dalla barbabietola e il cui impiego prevalente è quello alimentare.

Il valore potenziale del saccarosio come materia prima per l'industria chimica è stato spesso oggetto di ricerca, ma le applicazioni pratiche sono ancora molto limitate. La sua struttura chimica di alcol poliidrato favorisce reazioni selettive a seconda del gruppo idrossilico, primario o secondario, e a seconda della posizione di questo nella molecola. Generalmente i gruppi idrossilici primari sono i più reattivi. La differente reattività dipende anche da altri fattori come il tipo di solvente che si usa, il tipo di reazione, la temperatura ecc.

Tutto questo consente molteplici sostituzioni e una potenzialità di derivati quasi infinita. Del saccarosio sono noti alcuni esteri, eteri, acetali e uretani anche se le conoscenze di tali derivati sono ancora scarse. I gruppi idrossilici primari possono essere ossidati ad aldeidi o ad acidi carbossilici e i gruppi idrossilici secondari a chetoni. I gruppi idrossilici possono essere sostituiti anche da idrogeno, da alogeni, da tiocianati, da tioacetati o da altri gruppi monovalenti.

Nonostante queste ampie possibilità di produzione, i derivati del saccarosio che hanno finora avuto un sia pur limitato interesse, anche dal punto di vista commerciale, sono stati gli esteri che hanno trovato utilizzazione come sostanze tensioattive ed emulsionanti nell'industria dei detergenti, dei cosmetici e in quella alimentare.

Anche derivati di altri zuccheri come il sorbitolo e il lattitolo (alcoli ottenuti per idrogenazione catalitica, rispettivamente, del glucosio e del lattosio), esterificati con acidi grassi, hanno mostrato buone proprietà detergenti disperdenti e umettanti.

Il campo di indagine nel settore degli zuccheri è ancora molto vasto e può riservare interessanti successi. Non sono stati qui presi in considerazione, ad esempio, tutti i processi basati sulla fermentazione la cui tecnologia, per certi prodotti, è già nota perché ampiamente usata prima dell'avvento della petrolchimica, ma che andrebbe, tuttavia, approfondita e sviluppata.

Grassi

Un'altra possibile fonte di materie prime per l'industria chimica sono i grassi. Essi sono già usati nell'industria dei saponi e dei cosmetici e trovano buona applicazione nell'industria dei detergenti, per la produzione di acidi grassi, "alcoli detergenti", metilesteri e loro derivati, sostanze intermedie per l'ottenimento di tensioattivi.

La potenzialità d'uso dei grassi è però molto grande. Già nel periodo chemurgico e durante la Il guerra mondiale sono stati impiegati per la produzione di idrocarburi e di oli combustibili.
I grassi, come del resto quasi tutte le sostanze naturali, si differenziano a seconda della loro provenienza ed esplicano particolati proprietà. Così l'olio di lino presenta proprietà siccative, quello di ricino proprietà lubrificanti per i motori. La presenza in quantità elevata di acido erucico nell'olio di crambe lo rende adatto a fornire un lubrificante specifico per i convertitori ad ossigeno, usati per la trasformazione della ghisa in acciaio. L'olio di jojoba, per la sua composizione di estere di un acido grasso con un alcol grasso, è risultato un valido sostituto dell'olio di capodolio, tradizionalmente usato come lubrificante e ormai molto raro sul mercato.

Indagare sulle caratteristiche dei grassi, presenti nei semi o nei frutti delle piante più comuni, ma soprattutto di quelle meno diffuse o di recente coltivazione, può essere un altro importante impegno scientifico per i ricercatori.

Proteine

Le proteine, molecole complesse fondamentali alla vita, costituiscono una buona parte del contenuto cellulare delle piante e degli animali.
Molte delle tecnologie tradizionali dipendono dalle proprietà delle proteine. La bontà del pane è legata alla presenza, nelle farine, del glutine che serve a formare un reticolo elastico che trattiene l'umidità e il gas e rende il pane soffice e fragrante. Anche i sapori e gli odori dei cibi dipendono, spesso, dal comportamento delle proteine durante la cottura.
La struttura delle proteine è molto complessa; molti studi sono stati condotti e i risultati più importanti si sono avuti a partire dagli anni '40, ma soprattutto dopo la seconda guerra mondiale. Tuttavia, le combinazioni con le quali i 20 aminoacidi, presenti nelle proteine, possono legarsi fra loro sono COSI numerose e tali da rendere ogni molecola proteica unica; varrebbe la pena, perciò, di approfondirne la conoscenza.
Nel periodo chemurgico la parte solubile in alcol del glutine di mais, la zeina, trovò applicazione industriale per la produzione di vernici e di fibre tessili. Altri tentativi, in seguito, per l'ottenimento di fibre tessili, sono stati fatti con le proteine della soia e delle arachidi. Il prodotto è risultato poco soddisfacente e la tecnologia è stata utilizzata poi per l'ottenimento di carne di soia.
Recenti ricerche suggeriscono l'impiego di proteine per la preparazione di sostanze tensioattive e di materie plastiche.

Lignocellulosa

Il materiale lignocellulosico è uno dei derivati della biomassa impiegato quasi esclusivamente nell'industria, soprattutto nell'industria delle costruzioni e dell'arredamento e in quella della cellulosa e carta.
Questo materiale, tratto per la maggior parte da alberi di alto fusto, può essere ottenuto anche da residui di altre piante minori che spesso vengono trascurati. È un materiale complesso in cui sono presenti oltre a cellulosa, lignina, emicellulosa, altre sostanze come acidi grassi, resinici, tannini, gomme ecc.
Nell'industria della carta, durante la preparazione delle paste al solfito e al solfato, si ha come sottoprodotto il lignosulfonato, una miscela di lignina sulfonata, di zuccheri, di acidi degli zuccheri, di resine e di sostanze chimiche inorganiche.
Il lignosulfonato è un'importante materia prima usata per la produzione di vanillina ed è suscettibile di altri impieghi in vari settori industriali: come tensioattivo nell'industria dei detergenti, come legante per pellets, come additivo nei cementi ecc.
Durante la lavorazione della pasta al solfito e al solfato, quando si usa legno di pino; dalla soluzione che si ottiene dopo la cottura del legno, il cosiddetto liscivio nero, si può ricavare anche il tallolio, costituito per il 48% da acidi grassi e per il 42% da acidi resinici che possono essere separati per distillazione e destinati a vari usi. Sempre nella preparazione delle paste da carta, durante la cottura del legno si ha la formazione di acido acetico e alcol metilico che spesso vengono scaricati con gli effluenti liquidi, creando problemi ambientai i che potrebbero essere evitati recuperando questi prodotti.
La carbonizzazione del legno porta sempre, infatti, alla liberazione di questi due componenti insieme a catrame e ad altre sostanze, tutte utilizzabili industrialmente.
Per idrogenazione o idrolisi della lignina si può ottenere una frazione di sostanze aromatiche e fenoli. Per idrolisi acida del legno si ha fra l'altro, una soluzione di pentosi, esosi, acido formico, acido acetico ecc. I pentosi possono essere convertiti in furfurolo.
Va inoltre ricordato l'ampio campo di utilizzazione della cellulosa da cui si ottengono numerosi derivati, come gli acetati, gli xantati, la carbossimetilcellulosa ecc..
Il materiale lignocellulosico, per la varietà e la ricchezza dei suoi componenti è una risorsa naturale che offre enormi prospettive. Adeguatamente impiegato può fornire la maggior parte delle merci oggi ottenute dal petrolio.
Anche da una cosi rapida rassegna, si può vedere come le materie prime di origine agricola possono rappresentare per l'industria una fonte di approvvigionamento costante, rinnovabile, poco costosa, non esposta a grossi giochi di mercato.
Perché l'industria possa utilizzare al meglio queste risorse che, se anche rinnovabili, non devono essere sprecate, ha bisogno di conoscere profondamente la loro composizione, la loro struttura e la loro disponibilità, la loro potenzialità di impiego.

È necessario che i laboratori delle università, degli enti pubblici, delle industrie sviluppino programmi di ricerca sui prodotti e sottoprodotti agricoli. L'agricoltura, da parte sua deve incentivare l'uso dei suoi prodotti, con colture adeguate, scegliendo per l'utilizzazione industriale piante adatte allo scopo, con caratteristiche particolari, creando ibridi ecc.
Hale nel 1946 concludeva cosi un suo articolo intitolato: The Farm Chemurgic Movement. "Il Farm Chemurgic Movement si pone come obiettivo quello di avere una agricoltura fiorente alla pari e in concorrenza con una industria altrettanto fiorente, entrambe condotte su basi scientifiche e in grado di fornire occupazione a tutti i cittadini".
È ancora oggi un obiettivo da perseguire.